Sudan, il massacro che non fa notizia: quando il silenzio diventa complicità
C’è una guerra di cui nessuno parla abbastanza.
Un conflitto dimenticato, che in poco più di un anno ha fatto oltre centocinquantamila morti, in gran parte civili.
Succede in Sudan, cuore dell’Africa, dove da mesi si consuma una delle peggiori tragedie umanitarie del nostro tempo: una pulizia etnica silenziosa, coperta da un muro di indifferenza.
Da una parte l’esercito regolare, dall’altra le milizie delle Rapid Support Forces, eredi dirette dei famigerati Janjaweed, responsabili già vent’anni fa dei massacri in Darfur. Oggi la storia si ripete: villaggi bruciati, donne violentate, bambini assassinati, intere famiglie sterminate perché appartenenti a una determinata etnia. E nel mondo civilizzato che predica la pace, non si muove foglia.
Le capitali europee restano distratte, i notiziari tacciono, le piazze restano vuote.
Eppure si tratta di una guerra tra uomini e contro l’umanità: i civili vengono colpiti deliberatamente, l’accesso agli aiuti è bloccato, le città ridotte in macerie. Non è un errore di percorso militare, è un progetto di annientamento.
Lo denunciano le Nazioni Unite, le ONG, i reporter indipendenti che riescono ancora a entrare in quelle zone dimenticate dal mondo. Ma le loro parole cadono nel vuoto.
La domanda è semplice, e terribile: perché nessuno si indigna?
Dov’è la mobilitazione che abbiamo visto in altre guerre? Dov’è l’indignazione collettiva, i cortei, le bandiere, i proclami?
Quando il sangue scorre in Africa, tutto si fa più distante, più scomodo, più silenzioso.
Questo silenzio pesa come una condanna.
E no, non c’è nessuna contraddizione nel dire che si può — anzi, si deve — condannare ogni crimine, in Palestina come in Sudan.
Ma non si può usare la sofferenza di un popolo come arma politica per guadagnare consenso, mentre si chiudono gli occhi davanti a un’altra tragedia che non porta voti e non conviene nominare.
Chi oggi manifesta per i diritti umani dovrebbe farlo sempre, non solo quando il palcoscenico lo illumina.
E allora sì, diciamolo: Francesca Albanese, se ci sei batti un colpo.
Comandanti della flottiglia, pacifisti a intermittenza, dov’è la vostra voce adesso?
Perché i bambini del Darfur non meritano meno compassione di quelli di Gaza.
Perché l’indifferenza selettiva è la più vigliacca delle ipocrisie.
Il Sudan brucia, e il mondo finge di non vedere.
Ma chi tace davanti a una pulizia etnica non è neutrale: è complice.
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