Editoriale

Matteo di lotta e di governo

di Tommaso Cerno -


Matteo di lotta e di governo

Come un compagno d’antan, forse in memoria dei tempi andati, quando faceva il comunista padano al Parlamento di Mantova, Matteo Salvini è ufficialmente a capo di una Lega di lotta e di governo. L’ultima trovata è il muro contro muro sullo sciopero. Che fa irritare Giorgia Meloni e schiera compatta la sinistra.

Ha troppa esperienza politica il segretario del Carroccio per farsi sorprendere. E ne ha perfino di più nel bilanciare l’anima governista dei suoi big, in particolare i due governatori del Nord-est, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, con la vocazione allo scontro che l’ha reso popolare, caratteristica questa che ne fa un capo politico difficilissimo da scansare. E così, alla vigilia di una campagna elettorale che sarà un banco di prova per il governo Meloni, ma soprattutto per stabilire il ruolo futuro del vicepremier nel centrodestra italiano, va all’attacco. Stretto nel suo ruolo di ministro delle Infrastrutture e scippato della paternità del suo tema preferito, i migranti, Matteo rispolvera la sua vecchia cultura di sinistra.

E si reinventa così. Attacca la sinistra, facendole un grande favore, perché ciò che manca da quella parte della Luna è proprio un nemico aggregante, e fa l’ennesimo dispetto al premier Meloni, che tutto voleva da questa manovra portata a casa con quattro spiccioli facendo quadrare il cerchio, finita nel silenziatore a causa della guerra a Gaza, che riportarla al centro del dibattito politico montando a cavalcioni su uno sciopero generale che, senza l’attacco di Salvini, sarebbe passato in cavalleria, perfino fra gli sbadigli del sindacato. E invece eccoci qui alla vigilia di un venerdì che da nero, il black friday di Amazon, sarà rosso, con i riflettori puntati su Maurizio Landini, Elly Schlein, Giuseppe Conte.

E Salvini lo sa bene. Sa bene di avere fornito un assist all’opposizione per fare quadrato e sparare sul governo. Ma è proprio ciò che gli serve per tornare al centro della scena, bersaglio preferito dei progressisti, e aprire una corsa parallela a quella di Meloni in vista delle Europee. Già, perché Fratelli d’Italia sta talmente bene in salute pur un anno dopo il voto che Giorgia ha un problema in più: deve fare bene a giugno 2024, ma non deve minare l’equilibrio instabile del centrodestra, dopo la morte di Silvio Berlusconi e la crisi di consensi della Lega. Deve tenere in vita l’alleanza, deve lasciare qualcosa agli altri, perché – come insegnano i vecchi del Palazzo – in politica bisogna vincere, ma mai stravincere. Ed ecco che il vecchio Salvini fiuta lo spazio politico e si infila alla vecchia maniera. Provoca sapendo di provocare, irrita sapendo di irritare. E poi, come un mare che si chiude, arrivano i suoi “governisti” a smorzare, correggere, aggiungere i ma e i però alla lectio del capo, che se la ride sotto i baffi sornione.

E questo perché la Lega nei suoi feudi storici ha un problema semplice. I suoi big hanno costruito un consenso molto largo, ma personale. E le liste civiche che hanno incoronato Zaia e Fedriga sono voti, in verità, più liberi di quanto si pensi. E il Capitano lo sa bene. E sa anche che Meloni attrae oggi proprio i moderati di centrodestra che cercano una casa grande, per cui tutto può fare tranne che lasciarle il campo. Meglio litigare che soccombere, ripetono i suoi, tanto la Lega non farà nulla che possa mettere in discussione davvero il governo. Lo fece con il Conte 1 e guardate come è finita.


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