Attualità

Matteo Messina Denaro è morto. Come ha vissuto da Boss a spese nostre

di Rita Cavallaro -


Perché vinciu “Iddu”: Matteo Messina Denaro è morto. Come ha vissuto da boss, a spese nostre

“Essere incriminati di mafiosità è un onore”. È in questa frase, considerata il manifesto di Cosa nostra e scritta di proprio pugno in un pizzino, che Matteo Messina Denaro ha racchiuso il senso della sua lotta contro lo Stato. E forte di quell’onore, nel religioso silenzio criminale che l’ha contraddistinto nei suoi trent’anni di latitanza dorata, l’ultimo dei padrini ha vinto la guerra contro “uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo”, al quale si è consegnato, facendosi catturare, solo perché in fin di vita, in modo tale da poter essere assistito nei suoi ultimi mesi a spese dello Stato e ricongiungersi alla sua famiglia, con la quale sarà seppellito. E allora, cosa può chiedere di più all’Italia un mafioso che vuole diventare un mito? E che, in quel mito, continuerà a vivere, nel sepolcro della cappella di famiglia dove i suoi fedelissimi potranno andare a portare fiori e rendere omaggio, visto che l’Italia non è stata neppure in grado di imporre una sepoltura in luogo segreto e dimenticato.

Così il capi dei capi resterà l’emblema di Cosa nostra, il padrino che è riuscito nell’impresa ardua di fare la bella vita pur essendo il ricercato numero uno d’Italia, di raggiungere una morte dignitosa in quel coma irreversibile che si è consumato sotto i riflettori di tutte le tv del mondo, puntati su quel letto dell’ospedale dell’Aquila dove il criminale ha esalato l’ultimo respiro accerchiato dall’amore della sua famiglia, di quella figlia, Lorenza, riconosciuta solo dopo la cattura, avvenuta lo scorso 16 gennaio alla clinica La Maddalena di Palermo, dove il mafioso si sottoponeva alle cure chemioterapiche sotto la falsa identità del suo fiancheggiatore, Andrea Bonafede. Matteo Messina Denaro ha beffato lo Stato ancora una volta, perché il suo decesso mediatico lo consacra a mito assoluto dell’Onorata società, ancor più dei suoi predecessori Bernardo Provenzano e Totò Riina, vissuti come topi in covi simili a tuguri, ancorati al passato dei Corleonesi e legati alla terra così tanto da creare un cortocircuito tra il loro simulacro e l’immaginario collettivo del potere.

Con la loro cattura, il Paese ha visto in manette una sorta di contadini anziani, espressione dell’essenzialità del male del tutto insensibili del sangue degli innocenti versato nelle stragi. L’arresto di Matteo Messina Denaro, invece, ha svelato il nuovo volto della mafia, quella che si è evoluta dagli attentati di Roma, Firenze e Milano, dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e che, forte delle coperture di pezzi delle Istituzioni, si è infiltrata nell’economia reale. L’ultimo dei padrini, infatti, porta via con sé i più grandi segreti dell’epoca stragista e della trattativa Stato-mafia, ma lascia un tesoretto di almeno 4 miliardi di euro, nascosti nei paradisi fiscali esteri, che gli inquirenti non sono stati ancora in grado di individuare. Il latitante, nella sua lunga fuga degli ultimi trent’anni, ha viaggiato sotto mentite spoglie e non ha mai cambiato faccia, come raccontavano le leggende metropolitane riguardo a fantasiosi trapianti del viso.

Matteo Messina Denaro ha gestito in prima persona i suoi affari, dall’eolico all’edilizia, dai supermercati alle costruzioni, dall’immobiliare alla droga. E per sottrarsi all’arresto ha inventato lo stratagemma dei soprannomi nei pizzini, teorizzato nella sua prima missiva datata “I-X-.2004”, quando il capomafia aveva scritto all’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, morto di Covid nel 2021 e “arruolato” dai servizi segreti per stanare il ricercato. “Dopo avere letto, bruci questa lettera, non strappare, bruciare”, intimava il boss con l’alias “Alessio” al suo interlocutore soprannominato “Svetonio”. Con questo metodo, Messina Denaro ha comunicato con i suoi fiancheggiatori per decenni, depistando le indagini e beffando i poliziotti che erano sempre un passo dietro a lui. Finché la malattia non lo ha costretto a rivedere il metodo infallibile e a delegare molti dei suoi affari alla sorella Rosalia, alla quale scriveva i pizzini chiamandola Fragolone. Era lei l’erede designata del superboss, secondo gli inquirenti che l’hanno arrestata poco dopo aver preso il fratello. Ora, con la morte dell’ultimo degli stragisti, si apre la corsa per il comando della nuova mafia.

La caduta del clan dei Corleonesi, infatti, riporta il potere nel luogo d’origine, il clan dei palermitani. Attualmente sono otto i mandamenti di Palermo, composti da 33 famiglie, nessuno dei quali detiene un’egemonia indiscussa sul territorio, ma “coabitano” sulla base di una suddivisione di ruoli e di influenze sulle diverse zone, reinvestendo i capitali derivanti dalle attività illecite. Le nuove leve in subbuglio si innalzano a capi e puntano a una rottura con il passato per il passaggio a una mafia 2.0. In questo scenario perdono dunque quota le voci che indicano come erede di Messina Denaro Giovanni Motisi, il 64enne palermitano soprannominato U pacchiuni (il grasso) e considerato uno dei killer al soldo di Totò Riina, inserito nell’elenco dei quattro latitanti più ricercati in Italia. Il modello a cui i nuovi picciotti si ispirano è quello della ‘ndrangheta calabrese, che ha avuto la forza, abbandonando le faide e favorendo gli accordi tra famiglie, di diventare la più potente organizzazione criminale italiana transnazionale, capace di contrattare da pari a pari con i cartelli colombiani.


Torna alle notizie in home