Attualità

Meloni non arretra sul Veneto. Salvini teme il colpo

di Ivano Tolettini -

LUCA ZAIA PRESIDENTE REGIONE VENETO MATTEO SALVINI MINISTRO


Il Veneto è il banco di prova dei rapporti di forza nel centrodestra. Lo era ieri, lo è ancora di più oggi, a due mesi dalle regionali. Se la Lega insiste nel rivendicare la candidatura, forte dell’eredità di Luca Zaia e del radicamento locale, FdI non arretra di un passo. Per Giorgia Meloni consegnare il Veneto alla Lega sarebbe un segnale di debolezza imperdonabile, dopo che alle europee FdI ha più che doppiato il Carroccio con un 37% che non lascia margini di interpretazione. Il nodo è politico e simbolico allo stesso tempo. Matteo Salvini sa che cedere significherebbe presentarsi alla base come leader ridimensionato, dopo avere già dovuto subire lo strappo sulle candidature europee e la crescita irresistibile degli alleati. Ma sa anche che imporre un nome leghista in Veneto, con i rapporti di forza attuali, rischia di rompere un equilibrio delicato. Non a caso, da Palazzo Chigi e da via della Scrofa filtra un messaggio chiaro: il Veneto non è negoziabile. È qui che prende corpo il surplace tattico di Meloni e Salvini. Nessuno di loro vuole arrivare allo scontro frontale prima del vertice dei leader, per adesso prendono tempo. Per la premier significa consolidare il primato di FdI e tenere in mano il dossier fino all’ultimo, evitando fughe in avanti. Per Salvini vuol dire mostrare ai suoi che la partita non è chiusa, alimentando l’idea che la Lega resti centrale e che il successore di Zaia non possa essere scelto senza un riconoscimento al partito che ha governato la regione per 15 anni.
In questo quadro, l’endorsement del segretario leghista ad Alberto Stefani, vicesegretario federale e leader della Liga Veneta, appare più come una mossa interna che una candidatura di reale prospettiva. Serve a cementare l’orgoglio identitario, a dimostrare che la Lega ha un nome pronto. Ma lo stesso Zaia ha preso tempo, rimandando al tavolo nazionale ogni decisione. Un segnale inequivocabile: senza l’ok di Meloni, nulla si muove. FdI, da parte sua, ha già pronto il ticket con Luca De Carlo, uomo di partito cresciuto con la leader, con l’alternativa di Raffaele Speranzon. Donzelli lo ha detto chiaro e tondo: niente baratti, nessuna trattativa al ribasso. La cornice resta quella di un’alleanza solida, ma la sostanza è che in Veneto FdI vuole imporre la propria leadership. Il paradosso è che l’unità del centrodestra non sembra in discussione sul piano nazionale, ma sul territorio la partita pesa più che altrove. Il Veneto non è la Puglia né la Campania, dove i rapporti di forza spingono a soluzioni condivise: è la vetrina del buongoverno, la regione simbolo di Zaia e della Lega. Per questo, cederla equivarrebbe a sancire un cambio di stagione. Intanto si agita il dossier Vannacci. Fontana e Centinaio non hanno nascosto il malumore, ma Salvini minimizza e lo definisce “valore aggiunto”. Anche qui la linea è la stessa: nessuna polemica, tutti compatti verso Pontida il 21 settembre. Il segretario sa che arrivare al pratone divisi sarebbe un boomerang. Resta però la domanda: quanto potrà reggere il gioco dell’equilibrismo? FdI non può permettersi di mollare il Veneto, la Lega non può accettare di uscirne umiliata. E se l’accordo non arriverà prima di Pontida, il rischio è che la resa dei conti si trasformi in un test di forza che ridisegnerà il centrodestra del dopo Zaia.


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