L’Italia viaggia spedita verso la meridionalizzazione della sua economia e, pertanto, più che allargare la Zes a Umbria e Marche sarebbe il caso di ripensare le politiche industriali e di sviluppo del Paese alla vigilia della fine del Pnrr. Parola di Adriano Giannola, presidente Svimez.
Presidente Giannola, dopo l’estensione della Zes Unica a Umbria e Marche ha parlato di meridionalizzazione del Centro Italia…
La meridionalizzazione va collegata alle performance economiche di queste Regioni del Centro Italia. Pensiamo solo alle perdite, in termini industriali, derivanti dall’addio di alcune delle poche grandi imprese che c’erano. Come le acciaierie a Terni, per esempio o alla crisi degli elettrodomestici a Fabriano. Sono cose significative per Regioni di piccole dimensioni che hanno pur mantenuto delle eccellenze a livello internazionale ma va detto che il circuito delle piccole e medie imprese italiane non sembra in forma smagliante…
Come mai?
Perché non è più un produttore diretto ma è diventato un contoterzista, diciamo un subfornitore di lusso. Come nella meccanica, nell’automotive. L’Italia ha perso la sua primazia nella struttura operativa in quel tipo di settore. E la cosa simile è accaduta nelle Marche, un po’ meno in Umbria, con le famose nicchie dei distretti. Ma alcuni settori hanno retto, altri no; e molte di quelle aziende si son dovute integrare nelle famose catene del valore, diventare subfornitrici per quanto di qualità, ma sempre dipendenti da un cervello che sta in Germania o chissà dove. E poi c’è un altro aspetto…
Quale?
Tutte le Regioni italiane hanno perso decine di punti rispetto alle medie europee. La Lombardia, che era tra le prime in Europa ha perso venti posizioni, anche il Piemonte ne ha perdute tantissime, come la Toscana, il Veneto. Le più penalizzate nel Centro Nord sono state proprio Marche e Umbria. Sarebbe il caso di parlare, in termini di rilevatori economici, come reddito pro-capite, occupazione e strutture economiche, di meridionalizzazione di tutto il Paese. Stiamo riscontrando altrove quelle caratteristiche che davamo per scontate in aree più problematiche di quelle che tradizionalmente non siano Umbria e Marche. Di recente un economista toscano, dirigente Irpet, ha scritto che il Nord si va riducendo, il Centro va convergendo, in retromarcia, nel Mezzogiorno. Ecco, sta andando proprio così. Va presa coscienza del fatto che il modello dei distretti e delle catene del valore non regge. C’è bisogno di una politica industriale e della logistica. E, magari, di estendere la Zes unica, che non cambia però le cose, a tutto il Paese.
In che senso?
Questo regalo che il governo ha portato con orgoglio ad Ancona altro non è che una banale riduzione delle difficoltà burocratiche. Il grosso del successo della Zes Unica non è una questione di modello, che non esiste, dal momento che il Mezzogiorno, tra sgravi fiscali, incentivi. Ma sta nel fatto che si sono ridotte moltissimo, in modo molto intelligente, le procedure per concedere gli aiuti. Generalizzarla in tutto il Mezzogiorno ha indotto gli imprenditori a darsi da fare al Sud. Quindi è un bene che venga esportato anche a Marche e Umbria. Anzi, dovrebbe essere estesa a tutta Italia, perché semplificare le procedure solo a Napoli e a Milano no. Ma non è una politica di sviluppo.
Lei ha citato anche la vecchia, anzi l’originale, Cassa del Mezzogiorno.
La Cassa degli anni ’50 è stata la molla che ha fatto fare il miracolo economico all’Italia perché ha garantito milioni di lavoratori all’industria del Nord, nella fase post-bellica togliendoli all’agricoltura che, intanto, non perdeva produzione perché l’ente si occupava di fare la riforma agraria e l’irrigazione. Buona parte della disoccupazione nascosta che ristagnava nelle campagne meridionale, aiutata dalla ripresa dell’industria, fu assorbita dall’industria del Nord, seppur con costi sociali elevatissimi. È stata un elemento di modernizzazione programmata, da quella che era struttura tecnica che agiva in autonomia dopo aver ricevuto i pareri del governo. È quello che il Pnrr, in modo molto sciocco, non ha fatto…
Un piano senza pianificazione?
Il Pnrr non ha nessun obiettivo preciso, è fatto di decine o centinaia di reforms da fare, di milestones da raggiungere. Cose incrementali di cui nessuna è prioritaria. Gli unici che hanno tentato di fare qualcosa di organico sono stati i Comuni. Per il resto, il Pnrr appare un gran disegno di tantissime cose. Non proprio ciò che andava fatto..
E cioè?
La teoria dello sviluppo prevede non di fare tante cose ma quelle, in maniera rapida ed efficiente, che ne innescano altre. Bisognava ragionare in termini di vantaggi competitivi del Paese, rispetto all’Europa, cosa che il Pnrr non ha fatto. Si doveva ripartire dalle Zes originarie, quelle del 2017. Dai porti, dalla logistica. L’Italia è al centro del Mediterraneo che a sua volta sta tornando al centro del mondo. Si doveva e si deve diventare il porto sud dell’Europa. Tante cose son state fatte, ma senza strategia. Si sarebbe potuta accompagnare con la transizione, lavorare a portare i trasporti sulle autostrade, sì, ma quelle del mare. Cosa per noi possibilissima. Abbiamo un grande vantaggio ma non lo sfruttiamo.
A proposito di transizione…
Parliamo del nucleare con un orizzonte di almeno quindici anni. Non si parla, però, del fatto che abbiamo risorse geotermiche in tutto il Tirreno e il Sud. Tali, dicono i tecnici, da essere l’equivalente di quattro centrali nucleari francesi. Non se ne parla neanche. Voler fare le rivoluzioni, ma senza costruire prima le basi, si dimostra impresa difficile…
Si può dire che il Pnrr è stata quasi un’occasione mancata?
Va riconosciuto che il Pnrr ha salvato il Mezzogiorno, affamato com’era da vent’anni. Ha avuto finalmente cibo, cresce più del resto d’Italia e dimostra di essere vivo. Ma non illudiamoci c’è bisogno di qualcosa che continui a far marciare il Sud, in maniera programmata. Bisognerebbe ripartire dalle Zes originarie, che erano otto porti. Oggi la Zes Unica riduce questa dimensione che è strategicamente essenziale. La Spagna, con un piano che è il terzo del nostro, cresce al 3%. Noi, quando è andata bene, siamo cresciuti dell’1,4%. Dobbiamo trovare un modo per continuare a crescere quando finirà il Piano. I segnali già per tanti motivi non sembrano poi essere così positivi.