Metamorfosi Kafkiana: da Cleone a Grillo
Atene, seconda metà del V secolo a.C. L’inclita polis che (ricordiamolo) non aveva inventato la democrazia, ma la parola greca che designa questo sistema politico, scopriva che quel regime portava con sé una fragilità intrinseca: il potere del λόγος (lògos). Il popolo, sovrano e capriccioso, era pronto a lasciarsi trascinare dall’oratore più abile o sanguigno, tra questi, Cleone figlio di Cleneto del demo Citadeneo. Figlio di un conciatore, emerso dalla ricca borghesia artigiana, rozzo e incompetente ma non privo di coraggio, divenne l’uomo forte dopo la morte di Pericle (429 a.C.). Aristofane, il suo più grande nemico, lo raffigurò come un urlatore sguaiato pronto a manipolare le assemblee popolari con gesti e grida. Tucidide, con più sobrietà, lo descrisse come «il più violento dei cittadini, nonché il più ascoltato in quel momento dal popolo». Demagogo, in greco antico, era di fatto una vox media, aveva un’accezione sia virtuosa che deteriore, ma non era necessariamente un insulto. Il demagogo poteva essere «colui che guidava il popolo» o «il capo del popolo». Scontato dirlo, ma mai inutile rammentarlo, il lessico politico moderno è diretto erede di quello antico sicché, parole particolarmente invalse nel dibattito politico contemporaneo, come «populista» o «populismo» sono di fatto declinazioni moderne della parola «demagogo», tanto cara ad autori
antichi come Tucidide, Aristotele, Isocrate et alii. Cleone ne incarnò la versione degenerata: la capacità di eccitare le masse, alimentare le paure, gridare soluzioni semplici a problemi complessi. Prometteva vittorie facili nella guerra del Peloponneso, agitava il fantasma dei traditori interni, proponeva pene esemplari per ogni città ribelle. Era, in breve, la voce della pancia ateniese. Prendiamo una poderosa rincorsa per effettuare un salto in lungo di venticinque secoli. L’Italia, con l’avvento del terzo millennio, conosce un fenomeno che per certi versi rievoca, rasentando le pratiche necromantiche, quel volto antico: Giuseppe Grillo, detto «Beppe». Anche lui nasce fuori dai ranghi tradizionali della politica, e anzi la contesta frontalmente. Non ha studiato retorica presso Protagora o Gorgia, ma ha rodato la voce sui palchi dei teatri e nelle piazze. Non porta la toga, ma usa il microfono. Il comune denominatore tra i due è l’uso della parola come strumento di rovesciamento: stentorea, ripetuta, capace di generare risate e scandalo. Come Cleone, anche Grillo ha trovato il suo Aristofane: non un poeta, ma l’intero sistema mediatico che, mentre lo ridicolizzava, lo rendeva onnipresente. La satira della commedia ateniese era feroce, ma non impedì a Cleone di diventare stratego e di condurre le sorti di Atene fino alla catastrofe di Anfipoli, dove cadde in battaglia (422 a.C.). Allo stesso modo, gli sberleffi dei giornali non impedirono al comico genovese di trasformarsi in tribuno della plebe digitale, fondatore di un movimento capace di conquistare il Parlamento e Palazzo Chigi. L’analogia potrebbe sembrare tirata per i capelli, ma entrambi intercettarono il malcontento popolare in momenti di crisi: Cleone, quando Atene era logorata dall’improvvisa morte di Pericle, da una guerra interminabile e aveva perso la bussola della sua politica estera; Grillo, quando l’Italia dava l’idea di affondare tra corruzione, disillusione e stagnazione economica. Entrambi si rivolsero direttamente al popolo, eludendo i corpi intermedi. Entrambi si affidarono al gesto, al tono, all’invettiva. Con una differenza sostanziale: Cleone fu figura solitaria, incarnazione di se stesso; Grillo, invece, costruì un’organizzazione che prese vita autonoma come movimento, con tutti i contraccolpi che ben conosciamo. C’è anche un’altra differenza che illumina il nostro status quo. La parola di Cleone aveva un tempo e uno spazio circoscritti: l’ἐκκλησία (assemblea popolare) che si adunava o nell’Agorà o sull’altura della Pnice o nel teatro di Dioniso. Bastava non esserci per non sentirla. Grillo ha potuto contare sulla riproducibilità tecnica dei potentissimi media: prima la televisione, poi la rete, dulcis in fundo i social. La sua voce, come un’eco infinita, non si spegneva mai. In questo senso, il nuovo «demagogo» è un milione di volte più potente di quello antico, perché non ha più bisogno della fisicità della piazza. Il valore paideutico della scienza storica ha avuto, ha e continuerà ad avere un valore atemporale. La democrazia (quella del nostro tempo è più una democratura, dannata pedanteria!) ieri come oggi, non muore per colpi di spada, missili cruise o droni bomba, bensì per abuso di parole. Quando la politica diventa grido, insulto gratuito, slogan, la ratio viene decapitata. Quel vecchio reazionario, geniale e pelato di Aristofane ridendo lo capiva bene: non si può combattere il demagogo con più grida, ma mostrando la nudità delle sue promesse. A noi resta la domanda: chi sarà il nostro novello Aristofane?
di PIERSAVINO DE GUBERNATIS
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