Cultura & Spettacolo

Mike Tyson, dall’inferno di Brooklin al ranch in California

di Redazione -


Nell’ultimo libro di Fausto Narducci edito da Diarkos

 

Ha vinto i suoi primi 19 incontri per KO, 12 dei quali alla prima ripresa. All’età di 20 anni 4 mesi e 22 giorni, nel 1986, ha conquistato la corona WBC contro Trevor Berbick, e un anno dopo ha vinto anche i titoli WBA ed IBF, divenendo il primo peso massimo ad unificare i campionati del mondo ed uno dei migliori pesi massimi nella storia del pugilato, detentore del record, tuttora imbattuto, di “più giovane campione del mondo dei pesi massimi”. Ma la “fama” di Mike Tyson (Brooklin – New York, 1966) è dovuta forse, più che alle sue vittorie e sconfitte sul ring, ai suoi comportamenti  dentro e fuori l’attività agonistica  che gli hanno valso, tra gli altri,  i soprannomi di “Iron Mike”, “The Baddest Man on the Planet”, “Kid Dynamite”, “King Kong”, di essere considerato “il più temibile pugile di sempre” e celebrato come uno dei pochi pesi massimi capaci di riconquistare una cintura della divisione dopo averla persa. Grazie alla sua notevole prestanza fisica ed ad uno stile di combattimento basato sull’aggressione senza soste sulla corta distanza, Tyson è stato uno dei picchiatori più efficaci e temibili della sua categoria.  Fausto Narducci, caporedattore della “Gazzetta dello Sport” che ne ha seguito da giornalista tutta la carriera, nel suo ultimo libro “Mike Tyson. The Baddest Man on the Planet” (Diarkos Editore,  pag. 249, Euro 18,00) scrive che Tyson nell’immaginario collettivo “è diventato un modo di essere, uno stato mentale e fisico, un sinonimo di violenza gratuita fine a se stessa. Un ragazzo che picchia un altro di ‘fare il Tyson’, un titolo di giornale che racconta di un’aggressione è accompagnato dal paragone ‘come Tyson’, un pubblico scatto d’ira diventa ‘alla Tyson’ e, soprattutto, ritroviamo il suo nome assegnato come fosse un patronimico a bulli di provincia con accanto il luogo di provenienza: il ‘Tyson della Brianza’ o il ‘Tyson della pianura padana’”. Ma Tyson, ricorda Narducci è stato anche un pugile, un grande pugile, “capace di rinverdire nei pesi massimi le gesta di Muhammad Ali”. Nel libro, vera e propria immersione nel mondo della box, Fausto Narducci ripercorre tutta la vita oltre quella “sportiva” di Tyson, dalle prime esperienze a Brownsville, la parte più degradata di Brooklin che aveva generato in lui “ non proprio la nascita ma era alle radici della violenza” del “pugile più cattivo del mondo”, ai trionfi sul ring (è stato campione dei pesi massimi WBC dal 1986 al 1990, WBA dal 1987 al ’90 e IBF dall’87 al ’90), alla condanna per stupro nel 1992, alla conversione all’Islam assumendo il nome islamico di Malik Abdul Aziz, alla squalifica per aver morso l’orecchio di Evander Holyfield staccandogli un pezzo di cartilagine (gesto che gli valse il “riconoscimento” di essere “probabilmente il più feroce lottatore ad aver mai messo piede su un ring”), al suo rapporto con l’altro sesso e la droga, al ritorno sul ring nel 1996 con la riconquista e la perdita, nello stesso anno, dei titoli WBA e WBC, ai due matrimoni e alla nascita dei figli, alle intemperanze verso i giornalisti, al fallito tentativo nel 2002 di riconquista del titolo detenuto da Lennox Lewis fino alla “costruzione” di una “nuova faccia”, quella di un uomo tranquillo, rispetto a quella del “pugile più cattivo del pianeta”.  Un racconto, il libro di Narducci, che sembra volgere verso la tragica conclusione dell’autodistruzione del campione. Invece, incredibilmente, insieme “alla pace familiare Tyson ha trovato, nel suo ranch alle porte di Las Vegas, in California, dove si è ritirato, una via di uscita diventando attore di se stesso. Questo libro racconta la sua parabola sportiva, ma anche il tentativo di un riscatto morale che non sarà mai completo” anche se “dopo il giro di boa dei cinquant’anni il Cattivo, padre di sette figli e tre volte sposato, è diventato un uomo più buono che non disdegna la palestra e cura il fisico ma ha anche raggiunto, in ritardo, una sua forma di maturità”. Ma, con il pelo il  lupo ha perso anche il vizio?, si domanda alla fine del libro l’autore ricordando “l’aggressione” ad una giornalista canadese “che gli aveva rivolto la domanda sbagliata” e gli insulti, documentati su Youtube, agli intervistatori che non avevano “rispettato il copione delle domande edulcorate”.

Vittorio Esposito

 


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