Economia

Moda e acquisti online tra etica, sostenibilità, economia circolare

di Redazione -


Il 2020 ha segnato un momento di profonda crisi per l’industria globale del settore della moda, eppure, secondo una ricerca Eurostat pubblicata nel gennaio 2021, il 64% dei consumatori di beni o servizi su Internet ha effettuato acquisti di abbigliamento, scarpe o accessori online.

Pur stimando il settore della moda vittima di una crisi senza precedenti nel 2020 (The state of Fashion 2021) uno studio della società McKinsey ha evidenziato ad aprile 2020 un aumento delle vendite online. La propensione ad acquistare abbigliamento in rete, infatti, è arrivata, per la prima volta, ad un tasso del 43% proprio nel periodo iniziale della pandemia (Consumer sentiment on sustainability in fashion luglio 2020). Effettuata su un campione di più di 2.000 consumatori nel Regno Unito e in Germania, la ricerca ha indagato, in particolare, la percezione della sostenibilità nella moda e una più marcata sensibilità ad un acquisto consapevole. Per due terzi del campione, infatti, l’epidemia ha sottolineato l’urgenza che la moda limiti il suo impatto ambientale e in molti (l’88%) ritengono che i produttori del settore debbano impegnarsi maggiormente per la riduzione dell’inquinamento. L’aspettativa dei consumatori è che i brands si occupino di rispettare e promuovere i diritti dei lavori, restando quindi eticamente ancorati alla loro responsabilità sociale oltre che ambientale.

I Millenial e i giovani della Generazione Z sono, invece, portatori di nuovi modelli di consumo, preferendo, nel post-Covid, l’acquisto di capi da indossare più a lungo, anche riparandoli se necessario, e manifestando una maggiore propensione verso il mercato del second hand.

L’ultima rilevazione dell’Eurispes (2021) ha evidenziato, durante il periodo della pandemia, un uso del commercio elettronico diffuso nella maggior parte della popolazione italiana (71,4%). In particolare, l’acquisto online di capi di abbigliamento ha riguardato, con diverse intensità, il 66,3% dei consumatori.

La crisi generata dal Covid-19 sembra, dunque, favorire l’instaurarsi di nuovi scenari per il mondo della moda e portare al rafforzarsi della sostenibilità ambientale e sociale della produzione e della distribuzione nel settore, accelerandone cambiamenti strutturali quali la riduzione della stagionalità delle collezioni e la nascita di una economia circolare.

L’accesso alle vendite online, notevolmente incrementato dall’epidemia e che ha, in parte, contenuto le ingenti perdite del settore, permette al consumatore di entrare in un mercato globale dell’abbigliamento, dove spesso l’esperienza d’acquisto e la tracciabilità della filiera produttiva risulta sfumata in vari ambiti. E ciò si esprime nell’aderenza, da parte dei produttori, a regolamentazioni nazionali o transnazionali in termini di impatto ambientale della produzione, nel trattamento dei lavoratori (rispetto dei diritti umani, esposizione a sostanze tossiche), nella sicurezza dei materiali in termini di salute dei consumatori (tinture tossiche o allergizzanti, rilascio di microplastiche), nell’ecosostenibilità dei materiali (sfruttamento delle materie prime, emissione di gas serra), nonché nella distribuzione delle merci (emissioni di gas serra del trasporto merci, packaging, ecc).

Se da una parte il sistema del labeling – tra i principali Fairtrade, Organic Cotton, Oeko-Tex 100 – permette già da diversi anni ai marchi di beneficiare di una identità di impatto ambientale di marchio positiva e di orientare il consumatore nell’e-commerce, dall’altra si assiste a nuove soluzioni sia nella produzione – riduzione del volume dell’offerta con meno collezioni stagionali prodotte e riciclo di materiali, capi multifunzionali o re-branding di capi invenduti – sia nella distribuzione – piattaforme di acquisto come Zalando che permette di selezionare esclusivamente dei marchi che corrispondano a criteri di sostenibilità. Si evidenzia anche l’emergere di una nuova sartoria artigianale online, diretta e coadiuvata dalle nuove possibilità di crescita del marketing digitale, e di nuove forme di fruizione dell’abbigliamento (piattaforme di scambio o mutuo prestito, servizi di affitto di vestiti, soprattutto per prodotti di lusso).

La stessa Commissione Europea dedica attualmente molto spazio all’innovazione nel campo dell’industria dell’abbigliamento e della moda, attraverso diversi strumenti, sia nel campo dell’innovazione nella ricerca di materiali ecosostenibili, sia nel riciclo e in sistemi di innovazione sociale attraverso diversi mezzi e programmi. Per citarne solo alcuni: l’EU’s Circular Economy Package (che introduce ambiziosi obiettivi in termini di riciclo dei rifiuti, compreso lo scarto tessile), l’European Green Deal, ma anche l’European Environment Bureau, con il programma European Social Innovation Competition per il 2020, “Reimagine Fashion: Changing behaviours for sustainable fashion”.

In linea con tale orientamento, si colloca il premio annuale di innovazione sociale Social Innovation Tournament dell’European Investment Bank Institute, un riconoscimento che premia l’imprenditoria europea e il cui scopo è di promuovere le realtà ad alto impatto sociale, etico o ambientale. Tra i vincitori per il 2020, c’è anche un progetto italiano: il marchio Quid. L’impresa sociale opera nel campo della sartoria e propone edizioni limitate fino a 300 pezzi – limitate perché ogni pezzo può essere realizzato solo fino a quando il tessuto non si esaurisce, un tessuto a cui i designer danno nuova vita, trattandosi di materiale di scarto della moda. Si avvale, inoltre, prevalentemente della manodopera di personale appartenente a categorie svantaggiate affiancando così, all’aspetto dell’ecosostenibilità, quello dell’inclusione sociale.

In parallelo, il fenomeno del fashion renting si sta sviluppando soprattutto grazie al noleggio online dei capi di abbigliamento: questo mercato varrà, nel 2023, 1,9 miliardi di dollari (secondo le stime dell’Allied Market Research).

Il fenomeno sta crescendo anche in Italia con realtà come DressYouCan, una sorta di armadio virtuale “delle amiche”, dal quale attingere. Il noleggio, che ha un costo di circa il 10-15% del prezzo retail del capo, consente di indossare sempre qualcosa di nuovo senza troppi sensi di colpa. Un altro caso italiano è la piattaforma Drexcode che propone l’affitto di abiti di alta moda (ma anche la vendita dell’usato) grazie a un servizio interamente online di consegna e di reso (con la possibilità di visitare lo show room milanese).

Negli Stati Uniti questa tendenza si è già sviluppata da almeno un decennio, con casi quali, ad esempio, “Rent the Runway” (attivo dal 2009), una delle principali piattaforme di affitto di capi e accessori moda. L’ascesa dell’azienda, pioniera nel suo campo, valutata un miliardo di dollari, dopo un enorme investimento di $ 125 milioni nel 2019, è da ricondursi, secondo Cait Lamberton, Professoressa dell’Università della Pennsylvania, del dipartimento marketing della Wharton School, principalmente a due fattori. Da una parte all’ascesa dei social nel 2008/2009 e, in particolare, alla maggiore esposizione mediatica diffusa negli utenti – una sorta di palcoscenico virtuale che impone ad un continuo “cambio d’abito” – e, dall’altra, ad una maggiore presa di coscienza rispetto all’impatto ambientale del “fast fashion”. Secondo la Prof.ssa Lamberton, inoltre, l’affitto risponde principalmente a tre bisogni essenziali del cliente: il bisogno costante di novità; un’immagine pubblica sempre impeccabile in termini di stile (soprattutto per professionisti con ruoli di rappresentanza); l’accesso (seppur temporaneo) a dei prodotti che non sarebbero altrimenti abbordabili.

La Lamberton non è pero sicura, come opinione di molti, che il futuro delle nuove generazioni sarà interamente orientato all’accesso ai beni piuttosto che al possesso, poiché quest’ultimo risponde a un forte bisogno identitario e ipotizza che esperienze come l’affitto nella moda, seppur in crescita, non soppianteranno completamente il “fast fashion” nella corsa alla costante novità. È perciò sul fronte del bisogno psicologico al consumo che si giocherà il futuro di queste nuove forme di circular economy nel campo della moda, e potrebbe sorprendentemente emergere un nuovo ritorno alla semplicità da parte del consumatore, un ritorno al possesso di poche cose, ma buone.

La crisi dell’industria della moda nell’era del Covid-19 ha, del resto, spinto anche un leader globale come Giorgio Armani a una forte presa di posizione: oltre a svolgere numerose iniziative di beneficenza durante la pandemia e rinnovare il pluriennale impegno del suo gruppo a sostegno e promozione di una moda sostenibile, nell’aprile 2020 ha lanciato un appello ai colleghi del settore dalle pagine della rivista americana WWD (World Wear’s Daily). Nella sua lettera aperta, indirizzata alla testata di spicco nel settore, Armani usa termini forti e incoraggia i colleghi, proprio in occasione della pandemia, ad una riflessione, denunciando una «sovrapproduzione dei capi d’abbigliamento ed un criminale sfasamento tra il clima e le collezioni» che ha portato, progressivamente, il mondo dell’alta moda a fare proprie le dinamiche tipiche del “fast fashion”. Nella frenetica rincorsa alla vendita, anche il mondo del lusso si discosta così dall’idea di eleganza senza tempo che, per lo stilista, non è solo un preciso codice estetico, ma anche un approccio al design e alla realizzazione dei capi che suggerisce al consumatore un modo di acquistarli ed usufruirne: farli durare.

Cecilia Fracassa

 


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