Attualità

Nassirya, 21 anni dopo: “Mio marito morto in trincea per un mondo più giusto”

di Anna Germoni -


Sono passati 21 anni, da quel 12 novembre del 2003, quando kamikaze al volante si lanciarono a tutta velocità con un’autocisterna imbottita di tritolo contro la base “Maestrale” dei carabinieri a Nassirya, in Iraq. Il boato si avvertì a oltre 10 chilometri di distanza. Quando cadde a terra la polvere sollevata dalle macerie comparve solo distruzione, carcasse annerite di mezzi militari, edifici sventrati e un cratere enorme. Marco Beci aveva 43 anni e tre figli, di cui l’ultima piccolissima, che lo aspettavano a casa. Era di Pergola, nel Pesarese. Una laurea in Scienze politiche e alle spalle lunghi anni di lavoro in Africa, nell’ambasciata in Etiopia, in Somalia, in Kenia, nell’ex Jugoslavia e in Kosovo. Nel 1995 entrò alla Farnesina come funzionario e poco dopo dalla Bosnia portò in Italia due bimbi mutilati dalle bombe, Sanja e Aladin, per garantire loro le giuste cure a Budrio. In Africa salvò Goitom, il suo autista eritreo “accerchiato” dal conflitto armato. Poi l’Iraq. L’ultima fermata. Era un italiano al servizio del mondo. Uno dei ‘giganti invisibili’ dei nostri tempi. Tra i primi a testimoniare l’obiezione di coscienza, in Caritas a Perugia; scelse la cooperazione internazionale per la sua testi di laurea, recandosi per le sue ricerche in Etiopia, aiutando i più deboli con il suo impegno umanitario e la sua personalità generosa.
Carla Baronciani, sua moglie, racconta: “Si trovava lì per caso. Era in una missione esplorativa. Doveva trovare un luogo adatto per aprire un ufficio governativo in rappresentanza della Farnesina. Aveva individuato la sede per l’ufficio con cui avrebbe gestito per conto del ministero degli Esteri i progetti per la ricostruzione dell’ospedale e dell’acquedotto. L’ultima volta che l’ho sentito è stato il giorno prima dell’attacco: l’11 novembre. Era sereno e tranquillo”.

Chi era Marco?
Un uomo in trincea che ha fatto della cooperazione internazionale uno stile di vita. Per lui non era un lavoro, ma una missione dell’anima. Credeva in un mondo diverso, fatto di amore e di uguaglianza. Per questo era a Nassiriya, come in Etiopia o nei Balcani. Era un grande uomo.
Subito dopo la strage ha creato un’associazione in suo nome.
Sì. Volevamo continuare ancora a camminare a fianco a lui, dando gambe ai suoi sogni, progetti e al suo desiderio di bene verso l’altro. Prima ci siamo focalizzati in aiuti umanitari per i bambini cardiopatici proprio in Iraq, la terra dove è morto Marco.
Poi.
Dando un aiuto a persone in difficoltà, anche pagando le loro bollette di casa. A gennaio invece partiranno corsi d’italiano per i figli di immigrati che lavorano qui. Un segno di vera integrazione. Questa impronta dell’associazione l’ha voluta fortemente mio figlio Giacomo e noi tutti siamo felicissimi di questa scelta. Giacomo sta seguendo la traccia di Marco.
Cioè?
È un medico specializzato in malattie infettive tropicali. Ora sta facendo un master sulle malattie tropicali in Belgio. Il suo chiodo fisso: debellare la tubercolosi. È stato in Senegal, in Madagascar. Anziché scegliere di fare l’infettivologo in ospedale o come gettonista, ha voluto fortemente prestare servizio presso il Cas di Bologna (centro di accoglienza straordinaria per migranti). È una struttura enorme con più di 200 persone. Ha scelto di fare il medico lì. Sta seguendo le orme del padre.
Merito anche suo. Non è stato facile crescere tre figli da sola.
Ero e sono una mamma. Ora anche nonna. Mi sono rimboccata le maniche, ho rinunciato nel costituirmi parte civile al processo e ho cercato di far crescere i miei figli, pur nella tragedia ed enorme ferita che non passa mai, nella totale serenità, trasmettendo i valori nobili in cui credevamo io e Marco e le nostre famiglie. I miei figli e ora la nipotina di casa, sono sicura, hanno sempre alle spalle Marco, che li guida nell’amore verso il prossimo, nell’eguaglianza. Verso un mondo giusto.


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