Cultura & Spettacolo

Nel cuore della balena

di Adolfo Spezzaferro -


Il dolore e la solitudine possono essere curati dall’amore o dalla fede? È questo l’interrogativo posto da The Whale, il nuovo film di Darren Aronofsky. Un lavoro di equilibrio tra cinema e teatro, tra fisicità e spiritualità, tra ciò che si vede e ciò che si prova. Girato in 4:3 – per riempire lo schermo con il corpo deforme del protagonista, un obeso di 266 chili, con una fotografia lugubre, sbiadita, per dare luce (si fa per dire) agli interni di una casa in penombra, di chi si nasconde dal mondo – il film è una messinscena allegorica della condizione umana. Il registro è drammatico, tragico; il messaggio è duro, divisivo. Un film a tesi, o dall’epilogo annunciato, se vogliamo. Ciononostante The Whale, una volta superato l’impatto iniziale di repulsione per l’aspetto del protagonista, una volta superato il disagio per tutto quello che viene mostrato – cibo spazzatura, e oggetti da obesi, come maniglioni, deambulatori e pinze per raccogliere le cose cadute per terra – ci coinvolge, ci tocca il cuore e ci fa accettare, accogliere la dimensione esistenziale di chi è senza speranza.
Questa la trama. Charlie (un bravissimo “redivivo” Brendan Fraser, in odore di Oscar) è un professore universitario drogato di cibo oramai recluso in casa: le sue lezioni di letteratura inglese si tengono online con la telecamera sempre spenta, perché si vergogna del suo aspetto, ed ha quasi completamente perso rapporti con il mondo esterno. L’unica eccezione è Liz, un’amica infermiera che gli tiene compagnia e lo aiuta con le poche medicazioni che accetta, perché non vuole andare in ospedale. Dopo una crisi cardiaca grave e una diagnosi che suona come una condanna a morte, decide di riallacciare i rapporti con Ellie, la figlia adolescente che non vede da molti anni. L’incursione di Thomas, giovane predicatore, membro della chiesa New Life, e la ritrovata presenza della figlia nella sua vita saranno l’occasione giusta per Charlie per fare i conti con il passato e con l’abisso incolmabile alla base della sua fame. Un dolore impossibile da superare, una vita spezzata che ha spezzato la vita del protagonista. L’autodistruzione nell’ingurgitare cibo a oltranza, come se fosse una droga per anestetizzare il dolore, è di fatto il rifiuto di una prospettiva futura, di una vita ormai privata di ciò che la rendeva degna di essere vissuta. Il grande amore di Charlie, un suo ex studente, per il quale il prof ha abbandonato moglie e figlia piccola, non c’è più. Sopraffatto dal senso di colpa, dalla morale cattolica.
Il film si svolge nell’arco di una settimana (in cui piove sempre, tranne nel momento clou), e la giornata del protagonista è scandita da una serie di “rituali”. Le videolezioni con i suoi studenti, le pizze consegnate la sera, la tv guardata insieme all’amica. Finché Ellie, la figlia 17enne (la convincente Sadie Sink), non scardina tutto, con cattiveria apparente, riversando tutto il suo odio di bambina abbandonata su un padre che forse ha deciso di recuperare il suo ruolo troppo tardi. Un film sulla sofferenza, sull’amore negato, sull’amore che non salva. Un film sul non sapersi perdonare e sul non sapersi fermare, ripetendo ciò che più ci fa male.
Sullo sfondo, a sottolineare come dentro l’enorme corpo da “balena bianca” abbandonata sul divano ci sia un animo delicatissimo, sensibilissimo, in cerca della Bellezza – “Scrivete qualcosa di onesto!”, dice il prof ai suoi studenti – bellezza umiliata, oltraggiata in primis dal suo aspetto fisico, c’è Moby Dick e una tesina – chiave di volta del film – sul capolavoro di Melville. Tutti siamo un po’ Charlie, tutti commettiamo sbagli, spesso irrimediabili. Eppure “le persone sono meravigliose”, anche quando sono mostri, sono balene bianche, inseguite da Achab, che cercano di schivare il suo rampone assetato di vendetta.
Il film, con una regia misurata, al servizio della monumentale interpretazione di Fraser, è l’adattamento della pièce omonima ad opera dello stesso autore, Samuel D. Hunter, insieme con il regista. Infatti ha un impianto teatrale: la porta di casa sono le quinte, l’azione è data dal dialogo, così come la tensione scaturisce a volte dal solo gioco di sguardi. Soprattutto quando entra in scena l’ex moglie, Mary (l’ottima Samantha Morton). I suoni dell’atto dell’ingurgitare cibo sono volutamente ingigantiti, per generare disgusto e non compassione. Eppure non manca l’empatia, la pietas classica, la spinta a voler salvare qualcuno. Anche se tutto quello che c’è intorno a noi, persone comprese, ci dice che non c’è speranza, che è impossibile.

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