Editoriale

Nel labirinto democratico

di Tommaso Cerno -


Il capolavoro che è riuscito al segretario nazionale dei Democratici è di quelli da guardare bene al microscopio. Perché, riportando il film indietro di quattro mesi, e provando a immaginare come il più grande partito della sinistra italiana possa passare dal ruolo chiave nel governo, all’opposizione, poi alla crisi, fino al rischio di una implosione che potrebbe renderlo fra poche settimane irrilevante nel quadro politico italiano, davvero non sembra possibile. Al netto del Qatargate e della monnezza che questo scandalo europeo, ma molto italiano, scarica a sinistra, il quadro del congresso che dovrà sostituire Letta, fino allo schema delle alleanze per le regionali in Lombardia e Lazio, è – mai fosse possibile – perfino peggio.
Proviamo a ricapitolare. Dopo lo strappo con il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte (al grido “Mai più con questa gente!”), gente rea di essersi astenuta in Senato sulla fiducia al governo di Mario Draghi che, secondo i grillini, non stanziava abbastanza soldi per il caro bollette e l’Italia che si stava impoverendo, Letta sigla davanti ai flash e alle telecamere l’alleanza elettorale con Sinistra Italiana e Verdi. Gente che, al contrario, non si era astenuta ma aveva votato proprio contro la fiducia al Professore della Bce già più volte, su temi ben più scivolosi, come la guerra in Ucraina e le armi a Zelensky. Nel fare questo, e nell’improntare la campagna elettorale contro Conte, anziché contro la destra di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e un drappello di residuati neocentristi della Prima e della Seconda repubblica, il Pd riesce a perdere in due mesi più di cinque punti. E a imbarcare l’ex grillini Luigi Di Maio, Soumahoro, e altri pezzi da novanta in cerca d’autore. Garantendosi il premio per la migliore campagna elettorale a rovescio della storia della Seconda Repubblica. E tornando alle percentuali che avevano, cinque anni prima, costretto Matteo Renzi alle dimissioni.
La logica conseguenza di questo risultato sarebbe stata, dunque, che Letta facesse proprio come Renzi. Lasciasse cioè il partito in mano a qualcuno che avrebbe dovuto traghettarlo al congresso. Congresso che si sarebbe dovuto svolgere in tempi molto brevi, aprendo le porte del Pd a un nuovo modello di partito da opporre alla destra. Il tutto prima delle regionali, proprio perché in questo modo ci sarebbe stato un appuntamento elettorale di rodaggio per i nuovi Dem, dove cercare – nel nome di una ritrovata unità di opposizione al governo Meloni – quell’ampia alleanza saltata a settembre e costata così cara. Invece no. Meglio tenersi Letta e rinviare il congresso. In modo da trovarsi con un segretario delegittimato e contestato a decidere la strategia per le regionali. Diamo pure il beneficio di inventario anche su questo al segretario, nel senso che un piano così strampalato può avere un’unica spiegazione. E cioè che il Pd sta cercando di ricostruire l’alleanza saltata, forte del fatto che non sarà Letta a guidare il Pd, per poi opporre una coalizione larga alla destra nelle regioni chiave dove si va al voto, cercando di vincere, o almeno di segnare una inversione di tendenza rispetto al dato macabro della debacle elettorale del 25 settembre.
Bene, per fare questo ci sono due strade: un campo largo che va da Iv-Terzo Polo-Calenda-Renzi-ecc. fino a Conte tanto nel Lazio, dove l’ex governatore ed ex segretario del Pd Nicola Zingaretti già governa con i grillini, quanto in Lombardia dove l’aria che tira è diversa, ma ujn blocco più vasto può provare almeno a frenare un centrodestra che governa ininterrottamente il Pirellone dal 1994, passando indenne come certe bestie preistoriche, fra le varie ere berlusconiana e prodiana, glaciazioni, scandali e misfatti. Nel caso in cui questo disegno si rivelasse impossibile per manifesto gigantismo del disegno, si cercherà di chiudere l’alleanza nel Lazio – dove serve – e si giocherà una partita solitaria in Lombardia, puntando su Milano. E invece no: l’alleanza salta nel Lazio, consegnando la regione alla destra di Meloni, che candida un civico di peso come Rocca. Mentre si mette in piedi in Lombardia, a guida Majorino, dove il cartello lettiano finirà terzo dietro a Attilio Fontana e Letizia Moratti. Per poi consegnare ai tre candidati del congresso e soprattutto ai loro padrini delle tessere, un partito morbon. Fatto di macerie. Rancori. Errori. E tessere. Con l’obiettivo di sopravvivere. Ma certo non di vincere.

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