Editoriale

Nessun algoritmo ci salverà dall’odio che coltiviamo

di Laura Tecce -


Cosa accomuna la fisica Gabriella Greison insultata sui social per una scollatura e Raoul Bova preso di mira con meme e attacchi beceri per un episodio legato alla sua sfera intima che tale avrebbe dovuto rimanere? Due episodi apparentemente lontani ma figli dello stesso male: l’abuso dello spazio digitale come sfogo tossico e gratuito. E giudicante.

La rete, anziché essere una piazza democratica di confronto, è spesso trasformata in un’arena dove persone frustrate e insoddisfatte proiettano il loro disagio e la loro morbosità voyeuristica sugli altri. E c’è un’aggravante: quando il bersaglio è una donna, spesso la violenza assume toni sessisti, paternalistici o moralistici; quando è un uomo, si punta sull’umiliazione e il tentativo di distruzione dell’immagine pubblica come nel caso di Bova.

E qui c’entra molto l’invidia sociale, un grande classico. Entrambi i casi rivelano quanto sia malata la relazione tra visibilità pubblica e giudizio collettivo. Il problema, quindi, non sono solo i social media, ma la cultura che alimentano e riflettono: una cultura che legittima il sarcasmo crudele come forma di superiorità, la misoginia come libertà di espressione e lo sfogo personale come diritto inviolabile. Finché non si farà una seria riflessione pubblica sull’etica della comunicazione e sulla responsabilità individuale online continueremo a vedere la libertà d’espressione degenerata in libertà d’offesa e l’empatia dissolversi nel cinismo virale. Perché non c’è algoritmo che possa salvarci dalla nostra disumanità, se non scegliamo di cambiare.


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