Attualità

“Non la sappiamo governare. L’Europa non alzi la voce! Doveva investire prima”

di Giovanni Vasso -

FEDERICO FERRAZZA WIRED ITALIA


“L’intelligenza artificiale, come ogni tecnologia ad alto impatto sulla vita delle persone trasformerà il mondo del lavoro: si perderanno delle mansioni ma nasceranno nuove figure professionali”. Ne è convinto Federico Ferrazza, direttore di Wired Italia, secondo cui i pericoli dell’Ai si annidano nella mancanza di lungimiranza che l’Europa sconta oggi. “Rischiamo di non riuscire a governare l’intelligenza artificiale perché un fenomeno globale non può essere affrontato, politicamente, su scala minore. Le aziende fanno un po’ quello che vogliono. L’Europa che alza la voce? Non ce lo possiamo permettere, si doveva investire in un campione tech Ue che non c’è”.
L’ultimo, solo in ordine cronologico, è stato Geoffrey Hinton. Sempre più scienziati denunciano i potenziali pericoli legati all’intelligenza artificiale. Quali sono i rischi dell’Ai?
Con l’intelligenza artificiale abbiamo il rischio di alimentare la disinformazione nell’opinione pubblica. Questo è un pericolo reale, ce ne stiamo già accorgendo adesso e sappiamo come gli algoritmi siano in grado di influenzare il pubblico e l’informazione in generale. Ma c’è un altro tema, ancora più ampio rispetto ai rischi dell’intelligenza artificiale. E riguarda, più in generale, tutta la tecnologia. Il pericolo principale connesso all’Ai sta nel fatto che corriamo il rischio di non saperla governare. E questo perché, di fronte a uno scenario che è globale, le grandi aziende tecnologiche fanno praticamente quello che vogliono perché non hanno un contraltare politico. E ciò è accaduto perché la politica si è totalmente disinteressata ai temi del digitale e del tech, che fa una fatica mostruosa a comprendere.
L’uso “sapiente” dell’Ai può incidere sui processi democratici? L’utilizzo degli algoritmi potrà determinare chi vince (o perde) le elezioni?
L’informazione politica è un soggetto di discussione se si parla di intelligenza artificiale. Sicuramente potrà incidere sui processi democratici, per esempio sulle elezioni. Ma l’elemento più problematico riguarda proprio la propaganda mirata al consenso popolare. Per fare un esempio: se utilizzo l’Ai per veicolare messaggi sul fatto che l’immigrazione è il problema del Paese e che esiste un’emergenza sicurezza quando, invece, i dati dicono che i reati sono in diminuzione, è chiaro che c’è un problema.
Ibm ha annunciato che eviterà 7.600 assunzioni, affidando quegli stessi compiti all’Ai. A Hollywood gli sceneggiatori e gli autori protestano (anche) contro l’uso della tecnologia nel loro lavoro. Che impatto avrà l’intelligenza artificiale sull’occupazione?
Ci saranno sicuramente degli scossoni. Succede sempre quando arrivano nuove tecnologie e sono così dirompenti come l’intelligenza artificiale. Di sicuro, l’Ai avrà un impatto sul lavoro. Cancellerà delle mansioni, perché magari si tratta di compiti che un computer può svolgere più velocemente, di cose che facciamo oggi e che domani lasceremo fare alle macchine. Ma credo che, contestualmente, nasceranno nuovi lavori, che emergeranno nuove figure professionali. Sta alla politica e alla classe dirigente trovare il saldo attivo di questa comparazione. Se il compito della politica è quello di governare, quindi ha l’obiettivo di far stare bene le persone, parliamo di un tema di notevole importanza di cui si deve assolutamente occupare.
Uno dei problemi del tech è legato alla legislazione, carente. Si è parlato, in passato, di Far West digitale. A che punto siamo oggi?
È ancora un far west. Ciò accade perché si deve far fronte a fenomeni globali che si incastrano in un mondo che globale non è, almeno in termini politici. Usa e Cina, che sono soggetti politici protagonisti di questa fase, hanno capacità di investimenti importanti, anche perché si rifanno a mercati interni di grosse dimensioni. L’Ue, invece, come soggetto politico è un po’ più naif. Non abbiamo nemmeno una fiscalità uniforme, infatti le Big Tech che operano in Europa hanno sede legale in Irlanda. Noi restiamo piccoli mentre le grandi aziende continuano a crescere. Si parla, ultimamente, di un progetto davvero interessante: l’antitrust globale. Sarebbe uno strumento molto utile. Quello che manca oggi è un agente terzo in grado di porsi come elemento di equilibrio rispetto a dei colossi che stanno crescendo moltissimo. Non è detto che compiano abusi, ma il rischio di ritrovarsi di fronte a monopoli e oligopoli c’è.
Per tentare di mettere ordine, la Commissione Ue ha emanata il Digital Services Act con l’obiettivo, conclamato, di porre precisi paletti alle strategie economiche e operative degli Over the Top. Funzionerà?
Mi auguro di sì. Ma l’Europa non è che si può permettere di fare la voce grossa con Big Tech. Intendiamoci, chiedere il rispetto delle regole per continuare a operare sui mercati comunitari rappresenta un principio sacrosanto. C’è però un problema: se domani l’Unione europea decidesse di chiudere con le grandi aziende digitali, da quelle americane fino alle cinesi, da Google a TikTok, non ci sarebbero società né strutture europee tanto forti da riuscire a rimpiazzarle. E tutto il Continente, un secondo dopo, perderebbe competitività su scala globale. Forse, prima di fare la voce grossa, sarebbe stato opportuno puntare a fare grossi investimenti, e a lavorare alla nascita di campioni tecnologici anche in Europa. Solo così avremmo potuto permetterci di fare la voce grossa con gli Over the Top. Ma temo che oggi non siamo nelle condizioni di farlo.

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