Lavoro

Non siamo un Paese in rosa solo un assunto su 3 è donna

di Redazione -


Un tempo, diversità di genere. Oggi, diversity. L’inglese è servito anche a diffondere il termine gender inclusion per segnalare sempre lo stesso fenomeno, oggi oggetto dei più diversi studi sulla mancata parità di genere nel mondo del lavoro, in primo piano sui tavoli dei responsabili delle risorse umane in ogni comparto produttivo, dalla più piccola azienda alle multinazionali. La più recente ricerca è stata realizzata da Reverse, una società presente in Italia, Francia e Germania e specializzata nel recruitment. Una sua indagine evidenzia che al 75% degli head hunter, i cacciatori di testa, intervistati è successo di percepire una netta preferenza per candidati uomini da parte delle aziende, anche se non apertamente dichiarata. Il motivo principale è la convinzione dell’azienda che la donna sia il genitore a cui viene affidata maggiormente la cura dei figli in tutte le fasi della loro vita. Solo 2 su 10 HR Manager dichiarano che nella propria azienda non esiste differenza salariale tra uomini e donne. Il 67% degli Head Hunter intervistati ritiene che ci sia più sensibilità da parte delle aziende verso il tema donne/lavoro rispetto al passato.

Una fotografia fatta dietro le quinte del mondo del lavoro femminile grazie alle testimonianze di HR manager e head hunter e che prova a rispondere a queste domande: perché ancora oggi è complesso per le aziende assumere donne, soprattutto tra i 25 e i 40 anni? Cosa porta gli imprenditori a compiere determinate scelte? L’indagine evidenzia che al 40% degli head hunter intervistati è stato chiesto esplicitamente da parte dell’azienda cliente, almeno una volta nella loro esperienza, di non sottoporre loro candidate donne. E 5 su 10 HR manager intervistati dichiarano che nel management della propria azienda esistono pregiudizi di genere con le motivazioni più diverse: il periodo di maternità, il diverso approccio al lavoro, la gestione della famiglia. Apertamente dichiarando che l’impresa non può permettersi in alcun modo di perdere una risorsa in conseguenza della maternità o a causa della cura della famiglia.

Un maggior supporto dello Stato, rileva Reverse, limiterebbe i permessi lavorativi delle donne e attenuerebbe questo stato di fatto. Un aspetto, quest’ultimo, che riguarda soprattutto le aziende meno strutturate. Perché il lavoro femminile è una ricchezza, come tiene a sottolineare il ceo della società, Alessandro Raguseo: “Soprattutto in un mondo sempre più attento a diversity e inclusion, come imprenditori siamo consapevoli dell’arricchimento che una maggiore diversificazione delle risorse può portare in termini di produttività e raggiungimento degli obiettivi. Il business, oggi più che mai, ha bisogno di sfruttare tutte le risorse disponibili: escludere un’ampia fascia di donne dal proprio assetto aziendale significa privarsi di un’estesa fonte di ricchezza. Il tema è ampio e le sfaccettature molteplici, ma un focus sulle agevolazioni messe a disposizione dei genitori – entrambi i genitori – per tutto il ciclo di vita dei figli potrebbe essere un aiuto all’impresa più cospicuo rispetto agli sgravi fiscali o molte altre iniziative”. L’interesse ad assicurare una piena inclusività, quindi, ci sarebbe. Anche se si conferma il divario salariale: solo 2 su 10 HR Manager intervistati dichiarano che nella propria azienda non esiste differenza di retribuzione tra uomini e donne. E, soprattutto se si considerano le posizioni apicali, le aziende prediligono un controllo maschile. Comunque, oggi più che in passato, si manifestano l’apertura e la consapevolezza nei riguardi del tema della diversità di genere sul posto di lavoro. Anche se restano come un macigno sulla strada delle donne gli ostacoli creati dall’assenza di un’ampia programmazione per loro, e in generale per le famiglie.

Se all’inizio del periodo di maternità gli aiuti alle madri sono maggiori, con il passare degli anni diminuiscono sempre di più i sostegni a loro disposizione.
E nelle scelte di ogni famiglia è quasi sempre la madre a sacrificare gli impegni professionali quando è necessario occuparsi dei figli anche nel lungo periodo. E’ questo, in buona sostanza, a trasformare l’assunzione di una donna in un investimento a rischio per alcune aziende. Quelle più strutturate riescono ad assorbire questa problematica e a presentarsi quindi come più virtuose. Ma poi, molti altri preferiscono rinunciare ai benefici della diversità.Lo scenario è questo. Il superamento del divario di genere non trova conforto nei dati mondiali. Il Global Gender Gap Report 2021 evidenzia che questo stallo è stato accentuato in tutto il mondo dalla pandemia. E l’Italia è impantanata a metà della classifica degli Stati, al 63esimo posto su 156 Paesi.

Cosa fare? Reverse tira in ballo lo Stato. L’Italia ha un Dipartimento per le politiche della famiglia nell’assetto di governo, guidato nella squadra del premier Mario Draghi dalla fedelissima ministra renziana Elena Bonetti. Questo Dipartimento – abbiamo scoperto – tiene a giacere nei suoi cassetti web un Documento di 56 pagine redatto 4 anni fa dagli stessi uffici ministeriali con l’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali e il Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’oggetto? Politiche familiari e demografiche in Europa e in Italia. Un rapporto che serviva, nel confronto tra il contesto europeo e la realtà italiana, a fornire le raccomandazioni necessarie per fare meglio di quanto finora assicurato al Paese.

Vi si legge che “le politiche per la famiglia dovrebbero integrare le responsabilità familiari con le politiche occupazionali, le pratiche lavorative, i servizi e le misure temporali per tutti gli individui in stato di necessità lungo tutto il corso della vita”. Prima ancora, che “in Italia il sistema ha potuto reggere essenzialmente grazie alla solidarietà familiare. Ma il ruolo vicario della famiglia come ammortizzatore degli squilibri funzionali e distributivi, come camera di compensazione fra redditi e opportunità di uomini e donne ha incontrato nel tempo crescenti limiti”. Per concludere con le azioni ritenute utili. Comprese quelle che, sul modello olandese e francese, aiuterebbero l’Italia a migliorare. Quanto fatto dal 2018? Poco, se il divario di genere nel mondo del lavoro non è stato scalfito.


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