Cultura & Spettacolo

Nuraghi di Sardegna, una risorsa non solo culturale

di Redazione -


di Giuseppe Pulina

Le ziqqurat mesopotamiche, le piramidi dell’antico Egitto, i dolmen megalitici di Stonehenge e il tempio del Sole di Machu Picchu sono da anni tra le aree del pianeta che l’Unesco ha incluso nel patrimonio che l’umanità è chiamata a preservare. Sono siti archeologici che identificano le regioni del mondo che hanno la fortuna di ospitarli. L’Unesco li ha scelti per il fascino che emanano e per la plurimillenaria storia di cui sono simbolo e memoria. Requisiti che potrebbero appartenere a buon diritto anche ai nuraghi che con la loro massiccia diffusione puntellano la Sardegna. Sono identificativi del luogo al quale appartengono, hanno una lunga storia alle spalle (ancor più misteriosa, addirittura, di quella dei monumenti citati) e sono l’espressione di un passato che silenziosamente sembra voler interloquire con il mito. Quello di popolazioni autoctone di cui poco si sa e di popoli esploratori che, solcando il Mediterraneo, hanno fatto rotta verso quella che gli antichi greci erano soliti chiamare Ichnusa. Eppure, la Sardegna è conosciuta nel mondo soprattutto per le sue spiagge e il candore azzurrino delle acque marine che le bagnano. Lo è anche, ma in misura decisamente minore, per la sua tradizione gastronomica (il pecorino sardo e il pane carasau, ad esempio) e per quella bandiera con i quattro mori che è diventata un po’ un’icona da villaggio globale, perché capita di vederla sventolare anche nei luoghi e nelle circostanze più improbabili. L’immagine dei due calciatori sardi della nazionale che ha vinto gli europei, Sirigu e Barella, che si fanno immortalare con la coppa e la bandiera dei quattro mori ha fatto conoscere la Sardegna più rapidamente di quanto abbiano fatto sino ad ora molti libri di storia e tante fiere internazionali del turismo. Potere del soccer, forse, e prova dell’inefficacia di strategie comunicative e promozionali che non riescono a valorizzare le risorse, esclusive ed eccezionali, di un’isola che avrebbe molto da raccontare e far conoscere di sé. Non si tratta di includere i nuraghi in un pacchetto turistico all inclusive. Chi visita la Sardegna dovrebbe sapere che quelle migliaia di torri di pietre massicce che s’incontrano dappertutto meritano di essere conosciute. Certo, non si può chiedere nemmeno al turista più scrupoloso di onorare con una sosta i tanti nuraghi dell’isola. Sarebbe un’impresa che metterebbe alla prova anche il più meticoloso catalogatore di beni culturali. Sparsi nei tanti angoli dell’isola, in modo particolare nel suo interno (guarda caso, la parte della Sardegna meno conosciuta e visitata), si contano diverse migliaia di nuraghi, facilmente identificabili, ma tutti più o meno dotati di una loro originalità, attribuibile alla struttura, alle dimensioni, al luogo nel quale sono stati eretti e alla funzione che gli si attribuisce. Non esiste un censimento definitivo che dia il totale dei nuraghi sardi. Non esiste, insomma, una cifra ufficiale che dica quanti sono e ciò dimostra non tanto l’imperizia del ricercatore quanto, semmai, le tante difficoltà che s’incontrano nel portare avanti un simile obiettivo. A motivo del fatto che quello dei nuraghi è un mistero vero e proprio, a partire dalla loro stessa ragion d’essere che ancora oggi fa discutere, e scontrare, storici e archeologi. Un numero ufficiale viene dal Piano Paesaggistico Regionale che indica la presenza in Sardegna di 4.562 nuraghi. Un numero netto e già di per sé sorprendente, ma da molti contestato, perché ritenuto inferiore a quello reale. Danno notizia di circa seimila nuraghi due siti web come nurnet e tharros.info, affidabili e ben documentati. Ci sono, inoltre, linguisti come Mauro Maxia che si sono serviti anche dei dati emersi da uno studio recentissimo realizzato per la metanizzazione dell’isola. «Studio che, precisa lo specialista, ha consentito in diversi casi di confermare o implementare i dati raccolti in precedenza». Per Maxia, il numero dei nuraghi di cui la storia della Sardegna dovrebbe serbare memoria sarebbero, addirittura, non meno di ottomila. Certo, non sono tutti materialmente identificabili; di molti non si conservano nemmeno pochi resti, ma, grazie alla toponomastica e ad un nuovo approccio allo studio delle fonti scritte e cartografiche, si può giungere alla conclusione che i numeri sinora dichiarati, per quanto apparentemente alti, sono più bassi del dato reale che un po’ alla volta e con fatica va comunque configurandosi. Va poi ricordato che i nuraghi costituiscono un unicum nella storia delle prime civiltà formatesi nel bacino mediterraneo, cui la Sardegna è l’esclusiva detentrice, e ciò, tenendo conto anche della distribuzione piuttosto uniforme nell’isola, ne fa il più distinto e indubitabile tratto identitario. Chiediamoci ora quale deve essere stata la funzione per la quale gli antichi abitanti dell’isola hanno costruito un così gran numero di edifici conici. La questione non è liquidabile in poche battute e quel che con sicurezza si può dire è che niente di definitivamente certo è stato acclarato in proposito. Residenze comunitarie, in qualche caso regge (come il complesso straordinario di Barumini), piccole fortificazioni simili, per il loro scopo e per la difficoltà di accedervi, alle casematte della Seconda guerra mondiale, silos in cui stipare e conservare il raccolto e, all’occorrenza, dare riparo al bestiame, vedette o torri per l’avvistamento a distanza di possibili incursori o invasori, i nuraghi sono stati considerati anche come luoghi di culto. Se così fosse (e questa è una delle ipotesi più accreditate), verrebbe da immaginare la presenza di una popolazione sull’isola particolarmente religiosa e di una civiltà che poteva essere caratterizzata in senso ieratico. Ma di tutto ciò, ovviamente, non si può sostenere alcunché, confermando ancora una volta l’aura di mistero che continua ad avvolgere la storia di queste antiche costruzioni. Ma che cosa c’è di più intrigante e promozionale del mistero? Per far sì che il nuraghe promuova la Sardegna occorre però che a essere promosso sia lo stesso nuraghe. Un’operazione di questo genere è in corso e può essere addirittura datata dal 1963, quando il regista Marcello Baldi portò a termine le riprese dei Patriarchi, ambientando e raccontando le vicende di Noè tra i nuraghi. Terra biblica, anche se per qualche regista più adatta a scenari western, la Sardegna venne trasformata in un set e i nuraghi diventarono le dimore degli antichi ebrei. Per credere con più convinzione che il cinema possa degnamente perorare la causa dell’isola e dei suoi nuraghi sono occorsi più di cinquant’anni. È stata trasmessa lo scorso anno, ad esempio, una puntata della serie tv di Netflix, Con i piedi per terra, dedicata alla Sardegna, tappa di un viaggio esplorativo di Zac Efron, attore tra i più noti, soprattutto al pubblico giovanile, dello star-system hollywoodiano. E sempre nel 2020 si è scoperta una fascinosa Sardegna scenografica grazie alla pellicola di Ulrike Kofler, What we wanted. Girato nell’estate del 2019, il lungometraggio, tra i titoli nuovi di Netflix, è stato candidato dall’Austria agli Academy Awards 2020 per la categoria “Migliore film straniero”. Da Cartoon Italia arriva, infine, la notizia che sempre Netflix potrebbe decidere di dedicare un film di animazione alla Sardegna, dove, val la pena ricordare, si sta attualmente girando una nuova versione disneyana della Sirenetta. Il cinema potrebbe davvero dare una grande mano alla Sardegna per vedere finalmente riconosciuto il grande valore storico e artistico dei nuraghi. Il passo iniziale è l’inserimento di questi monumenti nella Tentative list nazionale che costituisce un primo screening dei beni culturali e paesaggistici che aspirano a far parte del patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco. L’operazione è in corso e nell’isola l’attesa è grande. A far ben sperare è anche l’adesione alla campagna promozionale di tutta la classe politica isolana. Sembrerebbe che mai come in questo momento la causa dei nuraghi sia riuscita a suscitare una simile mobilitazione. Intellettuali, politici, uomini dello spettacolo e dello sport hanno assicurato il loro sostegno. Non manca, naturalmente, quello dell’industria del turismo, che dalla promozione dell’immagine dell’isola ha solo da guadagnarci. E se mai i nuraghi non dovessero bastare, in quest’immagine di terra seducente e misteriosa troverebbero posto anche altre grandi emergenze archeologiche dell’isola, come le “domus de janas” (letteralmente, case delle fate, di cui si contano alcune migliaia di esemplari), fonti e pozzi sacri, le tombe di giganti che sembrerebbero aver lasciato traccia in Sardegna, ma anche i giganti di Mont’e Prama, menhir e piccoli tempi. Insomma, un tesoro di testimonianze, spesso ben conservate, di un passato probabilmente più luminoso di questo scorcio di presente.

(fonte Eurispes)


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