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Parla il pm Alfonso Sabella, l’uomo che arrestò Brusca: “Comprendo i familiari delle vittime, ma…”

di Anna Germoni -


Brusca, il boss di San Giuseppe Jato torna in libertà, parla il Pm Alfonso Sabella: “Comprendo lo strazio dei familiari delle vittime, ma questa è legge”

Brusca è un uomo libero a tutti gli effetti, benché ancora scortato e protetto con una falsa identità lontano dalla Sicilia. Il boss di San Giuseppe Jato, che azionò il telecomando per far deflagrare 500 chili di tritolo a Capaci, dopo 25 anni in carcere torna alla vita. Forte è lo sdegno e la rabbia dei familiari delle vittime di mafia. Lui torna in libertà mentre i loro cari sono al cimitero.

Alfonso Sabella è il pm che lo ha arrestato. Ascoltato da L’identità dichiara: “Posso comprendere lo strazio dei familiari delle vittime e lo sdegno di alcuni. Ma è la legge. Ci sono collaboratori di giustizia che, pur avendo commesso gravissimi crimini, non hanno scontato pene significative. Chi non si è fatto un giorno di carcere mentre altri hanno ricevuto pene più severe. Lui ha scontato tutta la pena”.

Dottor Sabella, Giovanni Falcone durante un convegno a Courmayeur nel 1986, disse: “La legislazione premiale ha consentito una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà”. Il tema torna di grande attualità.
Falcone era il Maradona della magistratura. Questa legge è arrivata perché lo Stato con gli strumenti ordinari che aveva non sarebbe mai stato in grado di contrastare adeguatamente la mafia. È una legge che può essere considerata immorale, ma indispensabile.

Sta sollevando un problema di etica?
Per me è la legge più immorale che esista, perché implica un accordo tra lo Stato e un criminale affinché quest’ultimo tradisca i suoi compagni. Questo paradosso etico ha dimostrato l’efficacia della legislazione premiale. Più un individuo è criminale, in alto nella gerarchia e collabora, più le sue informazioni possono risultare utili per le indagini. E guai a cancellarla. Voglio ricordare che questa legge è stata emanata grazie all’influenza e lungimiranza di Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti. Il testo della normativa venne redatto, da una persona a me cara, da un leale servitore dello Stato, che con abnegazione e una integrità morale integerrima lo porto nel cuore, Loris D’Ambrosio.

Che entrò nella gogna mediatico giudiziaria del processo Trattativa e morì di crepacuore.
Sì, purtroppo. Anche se in quel contesto i miei colleghi hanno fatto il loro dovere.

Può ripercorrere i momenti della cattura di Brusca e quali furono le difficoltà tecniche nell’operazione?
Ricordo tutto di quel giorno. L’adrenalina, l’attesa e poi l’urlo di gioia per l’arresto. Era il 20 maggio del 1996, in un’operazione che si rivelò complessa e piena di difficoltà tecniche. L’indagine iniziò grazie a un’agendina criptata trovata in possesso di Salvatore Cucuzza (capo mandamento del gruppo di fuoco di Porta Nuova, nel palermitano, agli ordini di Riina ndr), che portò a numeri di telefono di due GSM intestati ad una novantenne di San Giuseppe Jato. Brusca utilizzava uno dei due per comunicare solo per mezz’ora al giorno, il che complicava ulteriormente le operazioni di localizzazione. Una delle principali difficoltà tecniche riguardava la tecnologia dell’epoca, che non permetteva di localizzare con precisione i telefoni. Il margine di errore era di quasi 2 chilometri quadrati. Per questo motivo, gli investigatori, tutti provenienti dalla squadra “Catturandi” della Mobile di Palermo, che era l’eccellenza della grande scuola investigativa di Antonio Manganelli, decisero di prendere tempo per affinare la loro strategia. Dopo un precedente fallimento, in cui i rumori ambientali avevano disturbato le intercettazioni, agli agenti venne un’idea brillante. Decisero di creare un rumore artificiale, facendo partire una motocicletta smarmittata all’inverosimile per attirare l’attenzione di Brusca. Mentre alcuni poliziotti erano appostati a pochi metri dalla casa di latitanza e altri ascoltavano a Palermo la sua voce, la moto con la marmitta rotta passò nei pressi della villa di latitanza facendo un gran casino di rumore. Brusca infastidito perché era al telefono reagì. Era la prova che fosse proprio lì. In quella villa, che era del fratello. Così l’ok per il blitz. Quando vide i poliziotti con un gesto di stizza gettò il cellulare dalla finestra. Venne arrestato mentre stava vedendo un film su Giovanni Falcone.

Brusca, l’icona del male. Quando decise di collaborare quali sentimenti ed emozioni provò?
Non mi sarei mai e poi mai rapportato o confrontato con un criminale. Figuriamoci con uno del calibro di Brusca. Da uomo provavo e provo ribrezzo. Da uomo di legge, dovevo sforzarmi di avere il distacco emotivo. Brusca ci ha fornito un bagaglio di informazioni che ci hanno consentito di cancellare la storia dello stragismo corleonese. In questo dualismo tra il dovere professionale e l’etica personale, deve vincere lo Stato.

Pier Luigi Vigna audito in Antimafia nel 2010 sollevò preoccupazioni sulla millanteria di alcuni collaboratori di giustizia. Capitò anche con Brusca?
Sì. Depistò varie volte con le sue dichiarazioni. Una cosa fondamentale quando si interroga un collaboratore di giustizia è: non far mai capire al collaboratore qual è l’oggetto del tuo interrogatorio, quale, dove vuoi arrivare, che cosa, qual è la tua ipotesi che ti sei fatta, perché se gliela rappresenti, lui inevitabilmente prova a dartela e ti fornisce una versione che tu vuoi sentire, che è una polpetta avvelenata. I colleghi giovani spesso ritengono che basti un registratore acceso davanti a un collaboratore di giustizia per scoprire i fatti. Non funziona così. Ci vuole molta, molta professionalità, molta attenzione. Sono da maneggiare con molta cura, però se ci riesci, diventano uno strumento insostituibile.


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