Le trattative sono ancora in corso sui dettagli, l'Ue si affida agli Usa per l'applicazione dei nuovi dazi
Non resta, all’Ue, che la parola di Trump. Non c’è altro a cui appigliarsi. L’accordo (che in realtà non c’è o, quantomeno non è del tutto chiaro) non è piaciuto a nessuno. L’hanno subìto a Bruxelles. E, stavolta, il gioco di scomunicare gli oppositori come nemici della democrazia non ha funzionato. E allora, che si fa? Niente, perché l’Europa non può reagire, non ha né la forza politica, nemmeno quella economica, per imporre un ragionamento agli americani. La frustrazione Ue si concretizza in un atteggiamento passivo-aggressivo, tipico di chi vorrebbe alzare la voce ma non può farlo. E, allora, si attacca (in tutti i sensi) alle minuzie. Sperando, così, di salvare almeno la faccia.
Il saltafosso degli acquisti per l’energia
Prendete, ad esempio, le parole della signora Anna-Kaisa Itkonen, portavoce della Commissione. Che ha spiegato ai giornalisti come gli impegni ad acquistare gas, ma pure petrolio e soprattutto combustibile nucleare, per 750 miliardi in tre anni va declinato in dollari, non in euro. Una differenza notevole e sostanziale poiché, al cambio attuale, si parlerebbe di un esborso da “soli” 686 miliardi di euro. Un bel risparmio, per carità. Ma non supera il tema centrale, quello che ha davvero fatto infuriare la Francia di Macron, e cioè l’aver cancellato con un tratto di penna i programmi di diversificazione di approvvigionamento energetico in giro per l’Africa e l’Asia centrale che avrebbero potuto dare all’Europa un briciolo di influenza in più in alcuni degli scenari più interessanti per gli equilibri futuri del mondo. Si passa, secondo gli analisti, dalla dipendenza energetica verso la Russia a quella con gli Stati Uniti.
Tariffe social
E mentre passa l’ora fatale del 1° agosto, l’altro portavoce Olof Gill ha riferito che sì, per vino e liquori i dazi dovrebbero essere al 15% e che no, le normative tecnologiche e la sovranità digitale non è tra i temi del confronto tra Bruxelles e Washington provando, così, a smentire il segretario Usa al Commercio Howard Lutnik che ieri aveva parlato apertamente di lotta alla web tax e agli “ostacoli” che la cattiva Ue mette sul cammino dei poveri nababbi della Silicon Valley di Big Tech. A loro è bastata una parola per mobilitare Trump che c’è andato giù come un carrarmato a difendere gli interessi delle grandi major oligopolistiche digitali.
Ue appesa alla parola di Trump
Ma, pure oggi, passerà senza alcuna dichiarazione congiunta. Che, oggi come una settimana fa, è ancora “imminente”. Chissà quando arriverà. Magari slitta ancora, ha ammesso Gill, che ormai si sarà stufato anche lui di ripetere sempre la stessa promessa che i fatti infrangono. La cosa importante, a Bruxelles, è che ci si aspetta che fin da oggi portino i dazi al 15%: “L’Ue è pienamente convinta che gli Stati Uniti applicheranno il tetto tariffario generale concordato del 15 per cento; è anche nostra piena consapevolezza che gli Stati Uniti applicheranno le esenzioni al tetto del 15%, come delineato dalla presidente von der Leyen domenica scorsa”. Gill ha aggiunto: “Ciò significa che da domani avremo l’immediata riduzione dei dazi per cui abbiamo lavorato così duramente, e quindi una posizione di stabilità e prevedibilità molto più solida per le imprese e i consumatori dell’Ue. Gli Stati Uniti hanno assunto questi impegni. Ora tocca a loro attuarli. La palla è nel loro campo”. Bontà loro.
Lo scontro vero è con la Cina
Nel frattempo, alla Casa Bianca, hanno ben altro a cui pensare che all’Ue. Ci sono tante, troppe, questioni sospese. Anche quello del 1° agosto si rivelerà, con ogni probabilità, l’ennesimo penultimatum dell’amministrazione Trump. Che, peraltro, ha già accordato un’ulteriore proroga di 90 giorni al Messico della “buona” presidente Claudia Sheinbaum. Il Sudafrica sembra intenzionato a proporre un’offerta last-minute che convinca i negoziatori americani, l’India formalmente non si muove ma i mercati tremano all’idea di un terremoto per le commesse di gioielleria, bigiotteria e abbigliamento. L’Indonesia spera di spuntare dazi personalizzati sul rame. Ma la vera, e grande, partita aperta è con la Cina. Con cui, Donald Trump, non può permettersi di fare il bullo. Xi non è Ursula. E, difatti, Nikkei Asia ha dato notizia della volontà, da parte delle autorità cinesi, di bloccare gli investimenti produttivi dell’industria cinese all’estero e in particolar modo verso gli Stati Uniti. Contestualmente, ieri, è emersa la polemica sui chip di Nvidia accusati di violare la sicurezza e la discrezione informatica. Dalla Casa Bianca si continua a mostrare ottimismo, Pechino ci va giù durissimo. Lo scontro, quello vero, è appena cominciato.