Politica

Politica e morale, il caso Galvagno e la giungla delle segreterie parlamentari

di Redazione -


L’affaire Galvagno, con la sua scia di viaggi “istituzionali” tra fiori e sushi, potrebbe essere solo la punta visibile di un iceberg assai più ampio e stratificato: quello dell’opacità diffusa nella gestione del potere, non solo a Palermo ma nei palazzi della politica siciliana. Perché se è vero che la giustizia farà il suo corso sulle accuse di peculato e corruzione che investono il Presidente dell’ARS, è sul piano morale e sistemico che occorre ora volgere lo sguardo. Ed è qui che si apre una voragine, ancora più inquietante, sulla quale da troppo tempo si tace: quella delle segreterie parlamentari.

La zona grigia delle segreterie

Dietro ogni parlamentare c’è un piccolo esercito silenzioso di collaboratori, consulenti, portaborse, segretari. Una squadra che dovrebbe occuparsi della gestione del lavoro politico, del rapporto col territorio, dell’elaborazione normativa. Dovrebbe, appunto. Perché nella realtà dei fatti – e lo sanno bene gli addetti ai lavori – le regole vengono spesso aggirate, i contratti non rispettati, i ruoli travisati. Accade che un collaboratore venga assunto con un contratto da part-time per svolgere in realtà mansioni a tempo pieno. O che venga chiamato a occuparsi di faccende ben lontane dalla politica: segreterie personali, compere familiari, perfino servizi privati. In alcuni casi, addirittura, si lavora mesi senza percepire compensi. O peggio: senza nemmeno un contratto formale. Una giungla, quella delle segreterie parlamentari, regolata più dalla fedeltà personale che dalle norme contrattuali. Dove la meritocrazia cede il passo alla logica del favore, e il diritto del lavoro viene schiacciato sotto il peso dell’arbitrio del potente di turno. E se qualcuno osa denunciare, rischia l’isolamento professionale e politico.

Un sistema malato di impunità

Non si tratta di singoli abusi, ma di un sistema consolidato di dissimulazione, protetto da una cortina di silenzio bipartisan. Nessun partito è immune. Nessuna corrente esclusa. Le segreterie, da potenziale laboratorio di pensiero e proposta, sono state trasformate in feudi personali, in cui si esige fedeltà cieca, si erogano incarichi per cooptazione, si umilia spesso la dignità del lavoro. Eppure basterebbe poco per fare chiarezza: una pubblicazione trasparente dei contratti attivi, un albo nazionale dei collaboratori parlamentari. Ma manca la volontà politica. Perché la precarietà del collaboratore è anche lo strumento di controllo del parlamentare.

Quando la morale torna utile solo per gli avversari

Nel caso Galvagno, come in altri prima, il problema non è solo giudiziario. È un fatto di cultura politica. Una cultura che ha smarrito il senso della misura, della sobrietà, dell’onore. Una politica che si mostra in giacca e cravatta nelle cerimonie istituzionali e poi, nella gestione quotidiana, si piega a logiche familistiche, clientelari, o peggio ancora, arroganti.
La destra meloniana, che ha fatto del rigore morale una delle sue bandiere, oggi si trova davanti a un bivio: difendere l’indifendibile o ristabilire un codice etico credibile. Ma la sfida è anche per le altre forze politiche, troppo spesso silenti di fronte a simili dinamiche, se non complici.

Il tempo delle domande scomode

Chi tutela oggi i giovani che scelgono di lavorare nella politica per passione e si trovano a sgobbare nell’ombra senza diritti? Chi controlla l’uso delle risorse destinate ai collaboratori parlamentari? Chi verifica se quel denaro pubblico viene usato per formare competenze o per pagare fedeltà?
Il caso Galvagno, al netto delle responsabilità penali, ci consegna un’occasione preziosa per riaccendere il dibattito sulla questione morale nella politica italiana, troppo spesso evocata, raramente affrontata.


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