Porta Pia, 155 anni dopo: fu vera gloria?
Porta Pia, 155 anni dopo: un evento che cambiò per sempre l’Italia, separando potere e fede. Fu una liberazione o un trauma storico irrisolto?
_”La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico.”-
Camillo Benso, conte di Cavour, discorso al Parlamento del Regno di Sardegna, 11 ottobre 1860.
La presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia, fu l’episodio del Risorgimento che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia.
Avvenuta il 20 settembre 1870, decretò la fine dello Stato Pontificio quale entità storico-politica e un momento di profonda rivoluzione nella gestione del potere temporale da parte dei papi.
Quel giorno, l’Italia unita apriva una breccia nelle mura di Roma a Porta Pia, ponendo fine al potere temporale dei papi e aprendo una nuova pagina nella storia della nazione.
Quel gesto militare non fu solo una conquista territoriale, ma un evento che avrebbe segnato la relazione tra fede, potere e libertà per generazioni.
Ma oggi, a distanza di 155 anni, ci si può chiedere: fu davvero un bene?
Un evento traumatico e decisivo
La breccia di Porta Pia fu aperta dal fuoco dell’artiglieria italiana guidata dal capitano Giacomo Segre, mentre i Bersaglieri furono i primi a varcarla.
La battaglia fu breve ma cruenta: 49 morti tra i soldati italiani e 19 tra le truppe papaline. Quel giorno segnò la fine di uno Stato Pontificio che aveva esercitato un potere temporale per secoli, costringendo il Papa Pio IX a barricarsi in Vaticano, proclamandosi prigioniero.
Da quel momento, la relazione tra Chiesa e Stato si fece aspra e complessa: il “Non expedit” papale impedì ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana per quasi mezzo secolo, creando una spaccatura profonda nella società.
La sacralità e il potere: un delicato equilibrio
Per rispondere alla domanda se Porta Pia fu davvero un bene, è necessario riflettere sul rapporto tra sacro e potere.
“Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio.”
Questa distinzione invita a riconoscere che il potere terreno e la sfera spirituale sono due regni distinti, entrambi importanti, ma da tenere separati.
Quando il potere politico si intreccia troppo strettamente con la fede, il rischio è che la sacralità venga piegata a logiche di dominio e controllo. Come ha scritto Simone Weil:
“Il potere si esercita sempre per mezzo della menzogna.”
La fede autentica, invece, vive di libertà, verità e coscienza personale , valori incompatibili con ogni forma di oppressione.
La questione della legittimità
Se da un lato è naturale guardare alla breccia come a un episodio traumatico, dall’altro non si può ignorare che essa ha segnato la nascita di uno Stato moderno e laicizzato, in cui la fede non fosse più usata come giustificazione di un potere temporale.
Fëdor Dostoevskij ammonisce con parole che risuonano ancora oggi: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso.”
Questa frase ci ricorda che la fede autentica non può essere ridotta a strumento di potere o a semplice regolatore sociale. Essa è il fondamento morale da cui nasce ogni responsabilità umana, ma per essere tale deve essere libera.
Una liberazione necessaria?
Molti storici vedono nella breccia di Porta Pia un atto inevitabile nel cammino verso lo Stato moderno.
Ma inevitabile non significa giusto, né necessariamente benefico per tutti.
Separare la Chiesa dallo Stato è un obiettivo legittimo in una società pluralista. Ma quando questa separazione avviene con le armi e attraverso la forza, può diventare una ferita più che un progresso.
La spiritualità di un popolo non può essere ridotta a ostacolo politico, né trattata come un nemico da neutralizzare.
Fu davvero un bene?
A 155 anni di distanza, resta difficile dare una risposta univoca.
La breccia di Porta Pia segnò la fine di un potere temporale anacronistico, è vero, ma aprì anche una stagione di conflitto e alienazione tra Stato e Chiesa, e tra l’Italia e una parte profonda della sua identità spirituale.
La laicità dello Stato è un valore, ma quando imposta con la forza, rischia di diventare un atto di rottura piuttosto che un gesto di equilibrio.
Molti italiani vissero quel passaggio come una violazione, più che una liberazione. Il trauma del Papa “prigioniero in Vaticano” fu reale, e la frattura culturale che ne seguì pesò a lungo sulla coesione nazionale.
Forse, più che una conquista, fu un’occasione mancata: l’occasione di costruire un’Italia che potesse unire spirito e modernità, fede e libertà, senza imporre la propria visione con i cannoni.
Separare il sacro dal potere non deve significare svuotare il sacro della sua dignità.
E in quella breccia, forse, qualcosa si è perso per sempre.
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