Attualità

Pozzolo e il ritorno delle preferenze. È ora di cambiare la selezione

di Fabio Dragoni -


Come la maggior parte delle persone a modo, riteniamo che il caso del “pistolero Pozzolo” entusiasmi tantissimo noi addetti ai livori che perdiamo il nostro poco prezioso tempo negli studi televisivi e molto meno gli assennati elettori che hanno di meglio da fare e cose più importanti cui pensare. Un episodio talmente assurdo che non sposterà di una virgola i consensi ma che ci obbliga ad interrogarsi sul metodo con cui viene selezionata la classe dirigente in questo Paese; in questo caso parliamo di politica. Come vengono scelti oggi i parlamentari è abbastanza chiaro. Laddove non siano eletti come vincitori nel collegio uninominale dove per ciascuna coalizione gareggia un candidato e vince chi arriva primo, i candidati sono inseriti in una lista cosiddetta plurinominale di massimo quattro persone presentata da ciascun partito (e non dalla semplice coalizione). Chi va a Roma? Chi prende più preferenze? Nossignore. Sono liste bloccate. Se ci sono sufficienti voti per eleggere uno dei quattro, passa il primo della lista. Se i consensi permettono di fare andare a Roma due candidati passano i primi due. Se il risultato è tale da farne passare tre, è la terna dei primi tre nomi a vincere la lotteria. Come appunto nel caso di Pozzolo piazzato nella lista plurinominale Piemonte 2 (Vercelli, Novara, Biella) al numero tre. Le segreterie scelgono e gli elettori votano il simbolo. Ne discende che il potere in mano ai leader di partito è enorme nel decidere la carriera politica dei colleghi. Nessuna battaglia all’ultimo voto per strappare una preferenza in più rispetto ai colleghi di lista. Niente mani da stringere. Santini da distribuire. Buffet da offrire. Eventi da presenziare. Niente di niente a meno che non venga organizzato dal partito. Così si risparmia sui costi della politica, veniva detto in pieno furore referendario durante gli anni Novanta. Quando venivano abolite le preferenze. E male molto male ho fatto a votare a favore. Ero giovane, avevo più capelli e molte meno idee. E quelle poche erano peraltro tutte sbagliate. A partire dalla necessità di abolire le preferenze. Si diceva che avremmo abolito il cosiddetto “mercato delle vacche”. Peccato che la controparte di quel mercato fosse l’elettore. Il risultato è che oggi quel mercato esiste ancora. Lo si fa però dentro le segreterie dei partiti. Alle spalle degli elettori che nella scelta dei candidati da mandare a Roma non hanno nessuna voce in capitolo. Sia chiaro. Gli elettori possono sbagliare pure loro. Ma devono essere in molti a farlo. Cosa statisticamente molto più difficile se a decidere è invece una persona. E sia messo agli atti. Questo problema di selezione della classe dirigente riguarda tutti, ma proprio tutti i partiti. Non soltanto Fratelli d’Italia. Le preferenze, per come era strutturata la vecchia legge elettorale prima di Tangentopoli, si prestavano certo a degli abusi ed offrivano un efficace modo di controllo del voto. Ogni candidato oltre al cognome aveva un numero. Quello di posizione in lista. Se io avevo il 5, Cerno il 2, Sirignano il 4 ad un dato gruppo di persone si diceva di votare 5-2-4. Ad altri 4-2-5. E così via. E poi si tiravano le fila. Si sarebbe potuto agevolmente cambiare questo sistema senza buttare il bimbo con l’acqua sporca. Senza considerare che il politico che arrivava a Roma grazie ai voti personalmente presi, ci arrivava a piedi, sudato ma con la schiena dritta; e non comodamente inginocchiato per compiacere il suo leader. Insomma una classe dirigente potenzialmente meglio attrezzata per superare le sfide che la avrebbero attesa. Senza considerare il fatto che le preferenze rendevano perfettamente sostenibile, anzi virtuosa, la convivenza delle correnti all’interno di un partito. L’uno contro l’altri armati per una preferenza in più ma alla fine tutti portavano l’acqua allo stesso mulino. Allo stesso simbolo. E poi si sarebbero contati. Oggi Emilio Colombo e Carlo Donat Cattin non potrebbero invece convivere dentro lo stesso partito come avveniva ai tempi della gloriosa Democrazia Cristina. Il tutto a detrimento della contendibilità interna. E della stessa democrazia dentro e fuori i partiti. Piaciuto lo spiegone?


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