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Attualità

Proposte analogiche: il primo dopoguerra e la violenza pro-Palestina

di Piersavino De Gubernatis -


C’è qualcosa di già visto nel clima politico che stiamo respirando in queste settimane. Le piazze che
si accendono, le accuse incrociate, le parole che si fanno armi.
Non è la prima volta che l’Italia
conosce un’aria così satura di diffidenza e di rancore, un’aria in cui chi dissente non viene ascoltato,
ma sospettato; in cui ogni tema internazionale diventa pretesto per riaprire ferite interne, antiche e
irrisolte.

È il segno di una febbre civile che non nasce oggi. Nel nostro Paese, il dissenso è sempre stato un
termometro delicato: segna il limite tra libertà e disgregazione.
Quando la protesta perde la misura,
quando la parola pubblica si fa clangore, la democrazia non si rafforza — si ammala. E a chi, con
giusta indignazione, invoca giustizia per le tragedie che insanguinano il mondo, occorrerebbe
ricordare che la giustizia, per essere tale, deve restare dentro le forme civili del dialogo, non
scivolare nella furia o nella delegittimazione dell’avversario.

Non è la prima volta che il nostro Paese vive questa tensione. Un secolo fa, tra il 1919 e il 1922,
l’Italia conobbe un clima simile: le piazze piene, le parole incendiarie, la sensazione diffusa che lo
Stato liberale fosse inadeguato a contenere la crisi morale e materiale del dopoguerra. Le
manifestazioni operaie, le occupazioni delle fabbriche, le bandiere rosse nelle città industriali: tutto
sembrava dire che il mondo vecchio stesse crollando.

Ma non meno veemente era la reazione dall’altra parte — agrari, reduci, nazionalisti — che si sentivano assediati da un disordine senza fine. Il Parlamento veniva deriso, i partiti delegittimati, la stampa urlava più che ragionare. In quel caos, nacque l’idea — tanto seducente quanto pericolosa — che solo la forza potesse ristabilire l’ordine. La paura del disordine, unita alla rabbia per la povertà e alla frustrazione dei ceti medi, aprì la strada a chi prometteva “fermezza”. Così, in nome della stabilità, la libertà fu sacrificata. Si invocò la legge per giustificare la violenza, e la democrazia, malata di sfiducia, consegnò se stessa a chi ne avrebbe decretato la fine.

Non è necessario forzare il parallelo per avvertire oggi un’eco di quel tempo. Anche ora, mentre le
piazze si infiammano per Gaza, mentre il dibattito politico si trasforma in una rissa morale, risuona
la stessa fragilità: l’incapacità di riconoscere legittimità all’altro. C’è chi scende in strada per
denunciare un’ingiustizia e finisce per colpire simbolicamente le istituzioni che dovrebbero essere
la casa di tutti;
c’è chi, al contrario, nel nome dell’ordine, considera ogni protesta una minaccia
all’ordine stesso.

Entrambi dimenticano che la democrazia vive di tensione, ma muore di rottura.
Allora come oggi, il rischio non sta soltanto nella violenza fisica, ma in quella verbale, quotidiana,
corrosiva. Il linguaggio pubblico si è inasprito: si parla di “traditori”, di “squadristi”, di “nemici”.
La parola, invece di costruire ponti, erige trincee. Ma una comunità che non sa più discutere è una
comunità che smette di pensare, e una politica che non sa più distinguere tra avversario e nemico
prepara la sua stessa dissoluzione. Il nostro dopoguerra morale non è mai davvero finito.

L’Italia continua a oscillare tra paura e sdegno, tra il bisogno di sicurezza e il desiderio di giustizia. È il
doppio volto di una società che si sente fragile e reagisce urlando. Eppure, la lezione della storia
dovrebbe insegnarci che nessuna democrazia muore di colpo: muore lentamente, quando le parole
perdono il senso, quando le piazze si sostituiscono alle istituzioni, quando l’emergenza diventa
normalità.

La vera sfida oggi non è scegliere da che parte stare nel conflitto mediorientale, ma difendere la
possibilità stessa di parlare tra diversi senza odiarsi. Difendere la misura, la pazienza, il diritto al
dissenso come esercizio di civiltà. Non serve un nuovo “ordine”, ma un linguaggio comune, una
grammatica della convivenza.
Un secolo fa, l’Italia smarrì questa grammatica e ne pagò il prezzo più alto. Oggi possiamo ancora evitarlo — se ricordiamo che la libertà non è il premio per chi vince, ma la condizione perché si possa ancora discutere senza paura.


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