Attualità

Può esistere una società dopo il Covid?

di Redazione -


di  Angelo Perrone

 

Le nostre abitudini sono state stravolte. Non è bastato. Ci ha turbato il senso di confusione provocato dal continuo mutamento delle regole. Rosso, arancione, giallo. Si apre, no si chiude. Anzi, si torna daccapo, e si ricomincia il giro. Allo sforzo di rispettare le regole, si è aggiunto il rebus di comprenderle, di tenere il filo, per non sgarrare anche senza volerlo.

Insieme alla restrizioni, le tante cose che non possiamo fare o che dobbiamo compiere diversamente, il turbinio di modifiche ed aggiustamenti. L’attesa delle novità, l’ansia del futuro, lo sguardo allo schermo per capire come sarà il domani. La dimensione viscida e torbida della mescolanza di informazioni. Come entrare in un frullatore e non uscirne più.

Abbiamo chiamato “sospeso” questo tempo: è innaturale e incerto. I meccanismi, giustificati dalla necessità di lottare contro il più insidioso dei mali, hanno provocato lontananza tra le persone, distacco degli individui dai gruppi di appartenenza, la disgregazione delle comunità. Tutto ha contribuito a questo effetto: il confinamento, il rispetto delle distanze, la rinuncia alla presenza a scuola e al lavoro, la delle attività giudicate “non essenziali”, dalla cultura allo sport, al divertimento. Il ritratto, forse impietoso ma veritiero, del pianeta di questi tempi è un luogo dove il contesto sociale è profondamente cambiato, si assiste all’eclissi del modello di società inteso come tessuto di relazioni e di scambio (affetti, idee, progetti). Siamo quasi alla “non-società”, come se il posto nel quale accade di vivere e di lavorare (ma anche di amare, di conoscere e intrattenere relazioni) sia in verità un “non-luogo”, secondo l’intuizione di Marc Augé: infatti è difficile scorgervi un’identità sociale, il segno di una presenza dell’uomo, qualificata dalle sue azioni. Tutto è mutevole, provvisorio. L’assenza di società è il risultato estremo e perverso del distanziamento.

Persino la parola d’ordine lanciata quasi quarant’anni fa (un’altra epoca, davvero) da Margaret Thatcher (“Non esiste una cosa denominata società”), letta alla luce degli avvenimenti funesti di ora, assume il significato di un tragico avvertimento, persino profetico, come anticipazione della realtà a venire.

Anche se allora non era certo prevedibile una pandemia globale e anche se il premier inglese, allora, pensava ad altro. Esistono «soltanto gli individui e le famiglie», perché la visione è conservatrice e pessimistica. Non c’è fiducia nell’intervento dello Stato, soprattutto non sembrano avere pregio le forme sociali di collaborazione finalizzate ad un fine collettivo. Meglio ognuno per sé, al massimo contiamo sulla famiglia, non potendo fare affidamento sulle formazioni sociali. Qui giunge alla fine un lungo tragitto, iniziato da tempo. Fatto dalla globalizzazione non gestita, dalla rivoluzione tecnologica parziale ed incompleta (ai margini i più poveri), dall’impoverimento delle classi sociali intermedie e inferiori, dalla crisi della scuola non più “ascensore sociale”, dall’esodo dei cervelli, dalla messa in quarantena di quelli rimasti prima che a farlo ci pensasse il virus. Poteva bastare, ed invece, a dare il colpo di grazia, ecco il Covid. Che ha imposto il resto, la scuola da remoto, il lavoro a distanza, la limitazione dei movimenti, il divieto di abbracciarsi e stringersi la mano, simbolo del distanziamento e dell’allontanamento, come regole generali di condotta. L’individuo, oltre la premonizione di Margaret Thatcher, è diventato nucleo sociale irriducibile per effetto della pandemia. Siamo alla frantumazione del tessuto sociale imposta dal pericolo del contagio, dal rischio di ammalarsi e di morire.

Il Covid ha rivelato quanto fossero effimere le forme storiche di condivisione collettiva. Oppure esse sono cambiate radicalmente e non ce ne eravamo accorti. L’edificio del Congresso americano non ha recinzioni, si affaccia su un prato verde, è accessibile a tutti, nessuno aveva pensato di “proteggerlo” perché erano non immaginabili gli assalitori. Quell’edificio non poteva che essere rispettato da tutti. Errore: la banda degli scalmanati istigati dal presidente Trump ha avuto buon gioco ad impossessarsi del luogo sacro della democrazia americana e farne oltraggio. Il rispetto per un simbolo della storia non era davvero così diffuso nel sentimento popolare come si credeva.

Non solo di là dall’Atlantico. Da questa parte, istituzioni rappresentative di differente consistenza sembrano diventati simulacri di società, non più formazioni rappresentative della volontà popolare di aderenti e cittadini. Partiti, sindacati, associazioni. Il parlamento stesso. Certo hanno fatto di tutto per screditarsi da soli. Interessi di parte, corruzione, tornaconto elettorale. Il destino del governo in Italia durante la pandemia? Chissà, dipende dal gioco di alcuni senza scrupoli, con i dadi truccati dall’azzardo e dall’irresponsabilità. Se tutti ci mettono del loro, alla fine è impossibile distinguere, tenere l’immagine delle istituzioni lontane dal discredito provocato dai rappresentanti. Eppure non è una questione nostalgica, l’attaccamento a simboli del passato ormai decrepito. Quelle che traballano – istituzioni, formazioni intermedie – sono le uniche forme storiche nelle quali le democrazie liberali hanno potuto e saputo trovare forma: in crisi, prima ancora della mazzata Covid, è la condivisione sociale delle difficoltà, l’approccio solidale ai problemi.

Non preoccupa tanto l’individualismo folcloristico, che pure ne è segnale: i selfie compulsivi, l’intemperanza giovanile, il narcisismo della comunicazione, la smaccata disaffezione verso il dialogo, l’incapacità di ascoltarsi, lo spettacolo sordo che va in scena sui media. La consunzione del tessuto sociale è in corso da tempo sotto i colpi della competizione economica priva di scrupoli, della corsa smodata alla carriera, del disinteresse verso gli altri.

Anche i media, a partire dai social, fanno sicuramente la loro parte. Possono diffondere odio, sospetto, diffidenza. Ma la colpa non è nella natura dei social. E nemmeno nella mancanza di una legislazione al riguardo, che pure sarebbe assolutamente necessaria.

Ogni forma di censura, specie se dall’alto, è costosa. Magari inevitabile ad un certo punto, però poco digeribile. Ma il quesito vero è un altro. Prima di auspicare che siano gli altri (anche se fosse lo Stato) a dirci come ci dobbiamo comportare (un confine estremo), che uso si è fatto dell’enorme libertà concessa da strumenti tanto potenti? Ci siamo buttati a testa bassa nel nuovo giochino senza pensarci troppo. Siamo finiti sotto il bombardamento di notizie ed informazioni di ogni tipo, in cui il vero è mescolato al falso. Un grumo di immagini e parole diventate poltiglia tanto sono state triturate, sminuzzate e riciclate fino a farci smarrire il senso. Pensavamo di saperla governare, ne siamo rimasti travolti. È diventata nube tossica, ci ha ammorbato, impedito di vedere chiaro. E noi ci siamo offerti, mansueti, al tritacarne, facendo conoscere tutto di noi, lasciando continue tracce dei gusti, degli interessi, delle idee.

La bolla che ci circonda non è solo fake news. La profilazione della nostra presenza incessante su internet, senza controlli e nostro giudizio, ha avuto altra conseguenza, persino più grave. L’immersione piena nel mondo fatto a nostra immagine e somiglianza. Quello dei nostri gusti, delle idee che condividiamo, delle opinioni che apprezziamo di più. Di ciò che ci aspettiamo di vedere e sentire. È il mondo degli “amici”, veri e simbolici, nostra cerchia di contatti.

La post-verità di Internet, cui abbiamo dato origine, è troppo spesso una bolla rassicurante che ci ha reso sprovveduti, quando si è trattato di affrontare il mondo oltre il recinto protettivo delle idee familiari, delle cose che conosciamo, del già noto e sperimentato. Non conosciamo davvero il mondo differente da noi, e non avendo sperimentato la diversità, siamo poco attrezzati ad affrontare il confronto con lo sconosciuto.

Il Covid, con il divieto di contatti sociali e di incontro con gli altri ha accentuato un disagio preesistente, rendendolo vistoso ed irreversibile. Stavolta senza nemmeno il riparo del mondo di prima (le abitudini, gli amici, i parenti), siamo apparsi ancora più “a nudo”: soli con le nostre debolezze, alla disperata ricerca di risorse per non smarrirci, e reagire. Non sempre le abbiamo trovate, perché indeboliti nel fisico, stremati dal logorio precedente. Dovremmo chiamare in soccorso etica e solidarietà: verso gli altri ma anche in nome nostro. Entrambe sarebbero quanto mai necessarie, e tornerebbe utile riconoscere che l’unico modo di uscirne è provarci tutti insieme. Ma non siamo molto attrezzati a farlo. Ci mancano l’esperienza, talvolta la convinzione. Eppure, a parte i limiti di ogni discorso dal sapore moralistico, c’è un risvolto pratico, utile a convincerci: il beneficio della reciprocità. La fiducia nello sforzo collettivo potrebbe essere integrato dalla constatazione che esso serve per tutti, nessuno escluso. L’equità può diventare un sentimento comune se tutto ha un senso, non è mai a vuoto, e contribuisce al benessere di ognuno. Il superamento delle diseguaglianze da obiettivo di una società più giusta potrebbe diventare anche mezzo per sviluppare – intanto – una maggiore solidarietà e farne il volano di uscita dalla crisi.

 

 Giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice


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