Editoriale

Quando i morti servono a resuscitare i vivi

di Laura Tecce -


Appena muore un personaggio noto – che sia il Papa, un attore di Hollywood, uno stilista o il batterista di una band che nessuno ascoltava più dal ’92 – parte l’olimpiade del cordoglio social. Vip, vippetti e aspiranti tali rovistano negli archivi fotografici con la stessa foga con cui Indiana Jones cercava l’Arca Perduta, alla disperata caccia del selfie in cui il defunto compare sfocato sullo sfondo.

La formula è sempre la stessa: post su Instagram corredato da foto insieme al caro estinto ,“Eravamo molto vicini, anche se quella volta mi aveva solo detto ‘scusi, può spostarsi che devo passare?’” e aneddoto strappalacrime “Ricordo ancora quando mi ha sorriso in ascensore: una connessione unica”.

Se non siete Richard Gere che grazie agli outfit creati da Giorgio Armani per American Gigolo è diventato un sex simbol internazionale – film che peraltro trasformò il brand in leggenda – o se non siete Antonia Dell’Atte, musa storica del più acclamato dei nostri stilisti, per omaggiare una leggenda assoluta della moda, mito universalmente riconosciuto, scomparso ieri, basta un pensiero, una sua foto. La leggenda è lui. Il resto è contorno.

E poi, culmine della beatificazione personale, il posto in chiesa. Non per fede ma per fotogenia: la lacrima che scende proprio mentre la telecamera indugia, la faccia contrita. Dal narcisismo patologico al narcisismo “necrologico”, il passo è breve: perché in fondo il lutto è un palcoscenico e nessuno vuole restare dietro le quinte.


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