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Quegli stadi “usa e vendi” costruiti dai nuovi schiavi

di Edoardo Sirignano -


Cosa c’è dietro gli stadi del Qatar? Il Paese dei mondiali di calcio non è solo grattacieli, sfarzo, salotti e bella vita. C’è un altro mondo, di cui non si parla o meglio ancora di cui non si vuole far sapere nulla. A parte una piccola casta di persone, che dopo aver studiato nei principali college americani, può dirsi al passo con il pianeta, dall’altra parte c’è una nazione fortemente legata a un passato, ricco di storia, tradizione e cultura, ma anche di contraddizioni, storture, arretratezza e soprattutto mancanza di libertà. Lo dice chi ha visitato quei luoghi e pur avendo visto diverse cose positive, si è dovuto ricredere su una realtà, che solo all’apparenza è all’avanguardia. Se ci sono organizzazioni, create ad hoc per parlare di lavoratori, orari e favolette varie che si utilizzano quando si parla di diritti umani, nei fatti esiste un altro mondo. Basta d’altronde visitare Doha, la capitale dei mondiali, per comprendere le due facce della perla del Medio Oriente. A diversi chilometri dagli alberghi di lusso, esistono vere e proprie cittadelle del lavoro, dove non si gira certamente con i Rolex o con le Bentley. Non bastano le visite, organizzate per le delegazioni parlamentari di tutta Europa, a cancellare dei “campi”, dove le parole sfruttamento e punizioni sono all’ordine del giorno. Più di qualcuno visitando gli alloggi, dove risiedono gli afghani, fuggiti dai talebani, dice di rivedere le immagini provenienti dalla Germiania nazista. Qualsiasi visitatore di quel campo, inoltre, non può non essere importunato da padri di famiglia che chiedono aiuti per i documenti, indispensabili per tornare dal fratello o dalla moglie in America, Francia, Inghilterra e via dicendo. Se davvero quelle persone possono contare su asili nido, palestre e mense vegetariane, come dicono le associazioni nate per ingannare l’Europa e l’Occidente, certamente non chiedono al primo parlamentare che gli capita davanti di rendergli la vita migliore. Quell’ospitalità, data a chi fugge dagli orrori dei conflitti, sanguinosi non è affatto gratuita. Per vivere nei “casermoni” bisogna lavorare di notte, precisamente dalle sette di sera a quelle del mattino. In una metropoli di cantieri, che spuntano come funghi, non si trova neanche un operaio di giorno. Questo non significa che non piace a quelle persone stare al sole o c’è qualcuno che impedisce di esporsi a temperature troppo elevate. Tutto il contrario. Cinquanta gradi non spaventano chi innalza le nuove cattedrali del calcio. Il problema è che i cantieri sono ben isolati e nascosti dal cartongesso. Quando la sera capita di uscire dall’hotel, perché solo lì puoi bere, sbagliando strada, è facile imbattersi in veri e propri fossati. Questi canali, pieni di fango e detriti, delimitano il perimetro dello sfruttamento. Oltre confini le misure di sicurezza scarseggiano, né ci sono zone ristoro. Si intravedono solo tanti cavi e fili, di cui la maggior parte senza alcuna protezione. Particolarità, ad esempio, sono le imbragature con cui vengono calati dall’alto quei poveretti, che nel 99 per cento dei casi non provengono dal Golfo Persico e che quando alzi la serranda all’alba ti possono sembrare angeli. Stessa tecnica, d’altronde, viene utilizzata per i comuni lavavetri. Una cosa è certa, stiamo parlando di non arabi. Se il reddito medio dei discendenti delle varie tribù locali è pari ai 150mila euro all’anno, quello di un operaio medio non supera i cinquecento euro, almeno come dichiarano le fonti locali. Con questa cifra si deve vivere in un mondo dove la vita costa almeno il doppio di quella italiana. Come fare ad andare avanti? Facile. Indispensabile chiedere aiuto a chi indossa il “thobe”, che per nessuna ragione al mondo si può sporcare. Questi ultimi neanche ci vogliono parlare con i loro sottoposti. Non a caso vengono richiamati, soprattutto dall’Asia, autisti e pseudo-sindacalisti, più simili a Kapo. Una particolarità di questi luoghi sono appunto i pulmini, che nella maggior parte dei casi restano fermi per strada e che nulla hanno a che vedere con le auto blu, messe a disposizione di quelle delegazioni che dovrebbero controllare che tutto funzioni in modo perfetto. Particolarità di questi campi di lavoro, su cui l’occhio certamente si sofferma, sono le scarpe. Esiste un vero e proprio mercato di calzature nei fabbricati destinati a chi deve sporcarsi nella sabbia bollente. Nei dormitori si vive in ciabatte. Non si può certamente consumare una risorsa preziosa, che può essere scambiata solo con un vassoio della mensa. A proposito di alimentazione, nel prossimo capitolo parleremo del menù dei nuovi schiavi. Prima di parlare di morte per gli stadi, è necessario comprendere la vita di chi lascia le famiglie per costruirli. Una cosa è certa, la verità non è quella che ci propina qualche associazione che si occupa di diritti umani e che finanzia viaggi di “falsa conoscenza” in giro per l’Europa. Non si può parlare certamente di morti, senza averli visti. Gli incidenti, d’altronde, sono ovunque. Detto ciò, è lecito interrogarsi sul perché le commissioni d’inchiesta su quanto sta accadendo in vista dell’appuntamento calcistico più importante del pianeta vengano composte solo da chi appunto dovrebbe essere controllato. A dirlo, in qualche incontro istituzionale, sono gli stessi organizzatori della manifestazione, che sottolineano come tocchi a loro risolvere i problemi e quindi monitorare le imprese di cui sono titolari. 


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