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Quell’Europa indifesa nelle mani dei burocrati della lobby degli affari

di Redazione -

PIER ANTONIO PANZERI CON IL DIPLOMATICO MAROCCHINO ABDERRAHIM ATMOUN E L'ASSISTENTE FRANCESCO GIORGI ©imagoeconomica


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

 

È opinione diffusa che l’Unione europea soffra di un deficit di democrazia e abbia assunto il profilo di un superstato nelle mani di burocrati e tecnocrati. In realtà, anche se il discorso porterebbe troppo lontano, le istituzioni dell’Unione europea e i detentori del potere istituzionale non hanno deficit democratici. Piuttosto, e le vicende di questi giorni lo stanno dimostrando, il deficit può essere riscontrato nei processi decisionali, in particolare nella loro vulnerabilità all’assalto dei gruppi di interesse e delle lobby dei più diversi tipi. Si tratta di un problema ben noto e a cui le istituzioni europee hanno da tempo prestato la dovuta attenzione. Il Registro per la trasparenza prevede infatti alcune precise regole di condotta nei confronti delle pressioni che gli interessi organizzati possono esercitare nel campo delle iniziative legislative. Certo, queste regole non sempre funzionano, ma l’offensiva frontale portata avanti contro i gruppi di interesse, qualificati spregiativamente e indistintamente con l’etichetta di “lobby”, prende di mira il bersaglio sbagliato. In fondo, se la democrazia è (e deve continuare a essere) pluralistica, tutti gli interessi legittimi hanno eguale diritto a ricevere ascolto. E infatti l’articolo 11 del Trattato sull’Unione europea recita: “Le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione. Le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile”. Purtroppo, quando si parla di lobbying, lobby e lobbisti il dibattito è inquinato dai pregiudizi e le iniziative volte a influenzare chi formula l’agenda vengono automaticamente equiparate a forme di corruzione. In realtà, corrompere e fare lobbying sono attività completamente diverse.

 

Il lobbying è il tentativo fisiologico di influenzare il processo decisionale di chiunque sia responsabile delle scelte pubbliche. La corruzione, invece, è il tentativo patologico di versare denaro per comprare un voto o una decisione. Il lobbying non è perciò di un’attività illecita di per sé, perché garantisce a gruppi organizzati di cittadini la possibilità di comunicare le loro preferenze agli europarlamentari e di influenzarne le scelte, un’opzione pressoché obbligata rispetto a un organismo che, proprio per la sua natura sovranazionale, ha bisogno di una rete di “sensori” capaci di comunicare informazioni utili al legislatore. Ad esempio, perché mai le associazioni ambientaliste non dovrebbero far sentire la loro voce per far valere istanze rispettose dell’ambiente? Oppure, perché i gruppi che si battono per i diritti umani non dovrebbero patrocinare iniziative a favore del rispetto dello Stato di diritto egualmente valide in tutti i Paesi membri dell’Ue? Più in generale, se correttamente regolamentata, l’attività delle lobby è un’azione che può migliorare la qualità delle scelte pubbliche nel momento in cui vi è una varietà di gruppi di pressione che, in competizione tra loro, partecipano al conseguimento dell’interesse comune.

 

Tuttavia, come si è visto e come si è detto, le regole attuali non sempre funzionano. E ciò perché si è fatto eccessivo affidamento sulla capacità normativa delle misure di trasparenza: il registro (non obbligatorio) per la trasparenza dei lobbisti, i diari delle riunioni per i commissari, i direttori generali della Commissione e gruppi selezionati di deputati al Parlamento europeo, i codici di condotta (per lobbisti e commissari) e così via. L’assunto di base è che la pubblicità (oppure il timore della pubblicità) possa essere un incentivo abbastanza forte da frenare le occasioni di corruzione. Ora, la trasparenza è certamente utile per aiutare il lavoro delle organizzazioni non governative, dei giornalisti e dei ricercatori che documentano la vita quotidiana delle istituzioni dell’Ue e per favorire l’accountability sostanziale dei decisori nei confronti delle loro decisioni. Ma non basta, come dimostra il cosiddetto Qatargate. La nostra dipendenza collettiva dai servizi di polizia degli Stati membri in cui hanno sede le istituzioni dell’Ue non può non preoccupare, visto il significativo declino delle norme sullo Stato di diritto che si sta verificando in diversi Stati membri.

 

Proprio per questo l’Unione europea dovrebbe cogliere l’occasione per dotarsi di servizi in grado di svolgere autonomamente queste indagini e affrontare i (purtroppo probabili) casi futuri di corruzione, se non altro per evitare che le norme già in vigore restino lettera morta e valgano come una testimonianza di inefficacia e di impotenza.


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