Cultura & Spettacolo

Quello che le d’Urso non dicono

di Riccardo Manfredelli -


Abbiamo preso in giro Barbara d’Urso perché durante la pandemia si prodigava in tutorial sul perfetto lavaggio delle mani; siamo stati puniti assistendo, come lobotomizzati, al successo di una che le mani le ha messe dove proprio non doveva: su dei soldi destinati – coram populi – a dei bambini.

Abbiamo accusato la d’Urso di essere fin troppo teatrale nelle sue chiuse, quando “col cuore” salutava i figli e quel pubblico che per vent’anni l’ha resa una colonna imprescindibile dei palinsesti Mediaset; abbiamo scontato la nostra superbia ingrassando i conti di un “sistema” per il quale i figli sono materiale per generare engagement e ricchezza, autorizzando implicitamente orde di mamme pancine senza scrupoli a fare lo stesso. Come se, dati alla mano, non fosse vero che circa la metà delle foto che alimentano le reti dei pedofili provengono dai diari social di mamma e papà; come se il CNCPO (Centro Nazionale per il contrasto della pedopornografia online) non avesse registrato, nel solo 2022, 424 casi di sextortion, adescamento di minori via web.

Abbiamo intimato a Barbara d’Urso di smetterla di occuparsi così morbosamente di casi di cronaca suggerendole, tra le alternative più gentili, di sfruttare il tempo per rinvigorire la sua vita sessuale. La sua controparte bionda e 3.0 non si è mai occupata di cronaca, ma un caso di cronaca rischia di diventarlo. E per marito si è scelto un campione mondiale di benealtrismo: “E la Rai? E il governo? E la Meloni?”, gnegnegne. Esattamente come un imberbe studentello che per giustificare la sua performance asinina in matematica spiega ai genitori che “tutta la classe è andata male”.

Gliene abbiamo dette di tutti i colori a Barbara d’Urso: e lei, fatta salva un’intervista pubblicata furbamente proprio il giorno della presentazione dei palinsesti Mediaset 2023/24 , in cui le deve essere sembrato doveroso chiarire che nella decisione di licenziarla da “Pomeriggio 5” non c’era proprio niente di concordato, ha scelto il più logorante (per i detrattori) dei silenzi: ha fatto le valige concedendosi sorta di interrail di studio tra Londra e Parigi, ed ha poi cominciato a girare i teatri di tutta Italia per ritrovare faccia a faccia il suo pubblico. Un pubblico in carne ed ossa, non “profili” che per quanto ne sappiamo potrebbero anche essere comprati.

Mostrarsi per ciò che non si è ha sempre un prezzo, anche se ti chiami Chiara Ferragni e puoi permetterti una tuta da 600 euro, ma che ti faccia sembrare una casalinga il giusto disperata: gli sponsor fuggono, e le piazze, pur virtuali, protestano: all’indomani dell’esplosione della tempesta mediatica Chiara Ferragni ha perso 180mila follower; pochissimi, se rapportati ai circa 30 milioni di potenziali boccaloni che avevano bisogno della “spinta gentile” di Chiara Ferragni per fare del bene, per pacificare la coscienza dal pensiero ossessivo di essere immeritatamente nati dalla parte giusta del mondo. 180mila “aventiniani” che, tra qualche anno, non vorranno essere bollati come cogl***i in un documentario in streaming pagato a peso d’oro.


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