“Questione morale a Palermo”: il caso Galvagno
“Questione morale a Palermo, Gaetano Galvagno si è dimesso” – È questo il titolo che, per un’intera notte, tanti militanti di Fratelli d’Italia avranno sognato di leggere al risveglio. Un sogno. Anzi, un’illusione. Perché all’alba, mentre il Paese reale apre gli occhi, Gaetano Galvagno è ancora lì, ben saldo al suo scranno, con l’aria di chi si crede invincibile. Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, uomo potente e fidatissimo del Presidente del Senato Ignazio La Russa, Galvagno si comporta come un Gattopardo di nuova generazione: sarcastico, impassibile, impermeabile alla bufera che lo investe.
Una bufera giudiziaria, va detto.
Le sue condotte “istituzionalmente inopportune” sono infatti oggetto di un’indagine formale della Procura della Repubblica di Palermo.
Le accuse? Corruzione, peculato e un uso disinvolto – per non dire privatistico – dell’auto blu di servizio.
Sessanta viaggi sospetti. Sessanta. Per fiori, sushi, familiari, amici e persino per il cane di casa. Tutto, a suo dire, ricondotto a “esigenze istituzionali”.
Questione penale o morale?
Certo, sul piano penale sarà la giustizia a stabilire cosa resterà davvero in piedi. Ma sul piano politico, etico e simbolico, è già tutto crollato. E a farne le spese rischia di essere l’intero partito.
Fratelli d’Italia, amato da milioni di italiani perbene, ha costruito la propria credibilità sul rigore, sul rispetto dei doveri prima ancora che dei diritti, sull’idea di un’Italia dove la parola “merito” si coniuga con “morale”. Ed è proprio questa reputazione che oggi viene messa in discussione da un singolo uomo, che dovrebbe rappresentare l’apice dell’istituzione regionale e che invece – secondo le accuse – ne ha fatto un comodo veicolo privato. Non è il partito a essere in discussione. Ma Galvagno sì. E non certo solo per l’inchiesta giudiziaria, ma anche per le critiche “in famiglia”, per il suo modo di intendere la politica e, soprattutto, di esercitare il potere che ne deriva.
L’uomo che non arretra – Non avrebbe certo sorpreso un suo passo indietro, almeno temporaneo.
Un gesto di responsabilità. Un cenno di sobrietà.
Invece, il 19 luglio, mentre Palermo ricordava la strage di via D’Amelio, lui non rinunciava a presenziare in pompa magna al matrimonio del figlio di Totò Cuffaro: uno sfavillante raduno del potere isolano, con tanto di presenza nutrita di esponenti dello Scudo Crociato. Una parte di quell’universo che, oggi, si prepara a sottrarre voti a Fratelli d’Italia per poi – forse – allearsi domani.
In prima fila, come se nulla fosse, c’era anche lui: Galvagno. Altro che discrezione.
Eppure, tra i militanti e i parlamentari siciliani del partito della Meloni, il disagio è palpabile.
C’è chi vorrebbe capire se sia possibile – e politicamente lecito – iniziare a prendere le distanze, a muovere passi di sfiducia, a ristabilire l’immagine del partito per ciò che è e dev’essere: una forza che non tollera ambiguità. Ma ogni mossa viene trattenuta da un timore: si rischia di colpire il Presidente del Senato? E Giorgia Meloni, che direbbe?
Il giunco che non si piega – Forse dovrebbe essere proprio La Russa, da uomo delle istituzioni e da siciliano, a dire al suo delfino le parole più antiche e più sagge della terra che entrambi rappresentano:
«Càlati juncu ca passa la china» (Abbassati, giunco, ché passerà la piena.). Tradotto: fai un passo indietro, taci, attendi. Lascia che la tempesta si sfoghi altrove.
Galvagno non è Fratelli d’Italia. Galvagno è un’anomalia. Una barca senza timone.
E ogni giorno in più in cui resta al suo posto senza chiarire la propria posizione è un’incognita d’immagine che il partito di Giorgia Meloni non merita.
Il tempo, come sempre, presenterà il conto. E stavolta non sarà a carico della Regione.
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