Politica

Quirinale LA CORSA AL COLLE CON LE INCOGNITE B. e D.

di Alessandro Borelli -


Ci siamo. Il settennato di Sergio Mattarella al Quirinale sta per terminare e, nonostante gli appelli e gli inviti che gli sono pervenuti in questi ultimi mesi da molte parti – politiche e no – di prorogare la sua permanenza al Colle (il suo mandato termina il 3 febbraio), il presidente della Repubblica non intende recedere dal suo proposito di lasciare la carica. Ancora oggi c’è chi non demorde, ma anche il capo dello Stato sembra fermo nei suoi propositi, reiterati anche nel saluto rivolto qualche giorno fa ai giornalisti che seguono il Quirinale. In questo contesto, a meno di clamorose sorprese, i partiti sono impegnati nella ricerca del suo successore. Ogni giorno gli organi di informazione sfornano nomi di possibili candidati alla massima carica dello Stato, ma sulla corsa al Colle ci sono due nomi sopra di tutti, quelli di Silvio Berlusconi e di Mario Draghi. L’ex “cavaliere”, fino all’attuale legislatura, è stato il leader incontrastato del centrodestra. Ora non più, ma avendo la sua coalizione la maggioranza relativa tra i “grandi elettori” (in tutto 10099, ha posto, sia pure non ufficialmente, la sua candidatura sapendo bene che né Matteo Salvini né Giorgia Meloni possono dire di no, almeno nella prima fase, alle sue aspirazioni sul Colle. All’insegna dell’”ora o mai più” (Silvio ha compiuto 85 anni lo scorso mese di settembre), il leader di Forza Italia sta giocando tutte le sue carte dicendosi convinto che, a coalizione compatta sul suo nome più i centristi di “Coraggio Italia” e di “Noi con l’Italia” (451 tra senatori, deputati e rappresentati regionali), non sarà difficile conquistare una sessantina di voti tra gruppi misti ed altro per raggiungere e superare, nella quarta votazione, la quota di 505 voti necessaria per essere eletti presidente della Repubblica. Sul leader “azzurro” si è aperto un fuoco di sbarramento da parte dell’intero centrosinistra e dai Cinquestelle che lo considerano – e non hanno tutti i torti – “il nome più divisivo possibile”. Certo, Berlusconi potrebbe contare sulla segretezza del voto e, parafrasando un vecchio slogan elettorale della Dc (1948, “nella cabina elettorale Stalin non ti vede, Dio sì”) può dire ai grandi elettori della controparte che “Letta (Enrico) e Conte non possono sapere chi votate”, ma in verità ci sembra molto difficile che la sua impresa quirinalizia possa avere successo. Quanto a Draghi, il presidente del Consiglio ha sempre evitato di esprimersi sul Quirinale ed ha sempre glissato sulle domande dei giornalisti sulla materia, ma nel contempo, non ha mai detto di non voler lasciare Palazzo Chigi. Anzi, nella conferenza stampa di fine anno ha affermato che l’opera da lui iniziata poco meno di un anno fa può essere proseguita anche da da un altro premier perché il Pnrr è già stato avviato ed approvato dalla Ue. Sia pure “aborto collo”, Enrico Letta non ha nascosto la sua propensione per l’arrivo dell’ex presidente della Bce sul Colle, l’unico che potrebbe scompaginare la compattezza del centrodestra. Draghi capo dello Stato sarebbe anche una garanzia per le istituzioni europee perché per sette anni potrebbe controllare e indirizzare le attività di governo (in effetti da Scalfaro in poi, fino ad oggi, il Quirinale ha più volte lasciato il “ruolo notarile” in favore di un interventismo sempre più pressante su vari esecutivi). Certo, la “carta Draghi” ha anche i suoi contraccolpi. Sono in tanti, nell’attuale Parlamento, che vedono come fumo negli occhi la possibilità che il presidente del Consiglio lasci Palazzo Chigi per il Quirinale perché il rischio di elezioni anticipare sarebbe molto forte e per molti ciò significherebbe non tornare a Palazzo Madama ed a Montecitorio sia per la riduzione del numero dei parlamentari approvata per accontentare i Cinquestelle (i senatori da 315 a 200 ed i deputati da 630 a 400), sia perché rispetto al 2018 sono cambiati i rapporti di forza tra i partiti ed anche alcuni vertici di partito (e si sa che le compilazioni delle liste elettorali le fanno loro). Cosa poi negata da tutti, ma reale, è che per tanti non rieletti non scatterebbe il diritto alla pensione da parlamentari. C ome si vede, sono molte le incognite sulle possibilità di Berlusconi e Draghi di diventare presidente della Repubblica. Ecco anche perché si avanzano molte altre candidature, alcune fondate altre molto meno, dall’attuale ministro della Giustizia Marta Cartabia al giudice costituzionale Giuliano Amato, da Paolo Gentiloni a Giulio Tremonti, da Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, a Letizia Moratti, assessore alla Sanità della Regione Lombardia, dall’ex presidente del Senato Marcello Pera a Pier Ferdinando Casini, che ha il vantaggio di stare nel centrosinistra ma di avere un passato da presidente della Camera e di essere stato il leader del Ccd-Udc nel centrodestra. I circolazione ci sono tanti altri nomi, ma occhio a Matteo Renzi. Lui non ha fatto alcun nominativo (ha solo escluso Berlusconi), ma come si inventò Mattarella, potrebbe tirare fuori dal cilindro un altro candidato che potrebbe accontentare la maggioranza dei grandi elettori. Giuseppe Leone


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