Attualità

Randagismo, un fenomeno consistente di umana disaffezione

di Redazione -


di Giuseppe Pulina

Il randagismo è un fenomeno di cui si viene a parlare soprattutto in estate. Lo si potrebbe chiamare “umana disaffezione” perché chiama in causa l’ambigua relazione dell’uomo con gli animali domestici: prima desiderati, quindi accolti, teneramente coccolati quando sono cuccioli e, alla fine, messi alla porta e abbandonati. I report delle associazioni e degli enti che monitorano il fenomeno dicono che l’abbandono di cani e gatti, i cosiddetti animali d’affezione, è in Italia una piaga ancora consistente. Di buono ci sarebbe che i numeri, sempre alti, hanno fatto registrare negli ultimi anni un calo. Si è però in attesa di conoscere i dati aggiornati, quelli degli ultimi due anni che, a causa della pandemia, hanno visto cambiare le abitudini e gli stili di vita di milioni di persone sul pianeta. Di questi cambiamenti – è facile supporre – anche il mondo degli animali domestici ne ha subìto gli effetti. Presto ne sapremo di più. Cioè, dati alla mano, si potrà valutare l’incidenza e la natura (se positiva o, come si teme, negativa) di questi effetti sulle condizioni di cani e gatti e di altri animali che vivono tra le mura domestiche. E si saprà soprattutto se il fenomeno del randagismo, alimentato dagli abbandoni, ha ripreso quota. I dati dell’ultimo studio disponibile della LAV raccontano di un fenomeno apparentemente in flessione. Dalla comparazione dei dati del 2018 con quelli dell’anno precedente, in cui mancano quelli della Calabria che non ha fornito indicazioni, viene fuori il quadro di una tendenza da consolidare: il fenomeno è in calo, ma lo è prevalentemente nelle regioni centrosettentrionali. In quelle del Sud, anche se si è registrata una diminuzione del 6% rispetto al 2017, il numero dei cani detenuti in un canile continua a essere molto alto. Sarebbero quasi 100 mila i cani presenti nei cosiddetti canili rifugio e il 67,1% di questi vive, nell’attesa di una difficile adozione, nei canili del Mezzogiorno. Ma c’è un dato che fa ben sperare: prima della pandemia la tendenza si era rivelata positiva su scala nazionale con una diminuzione del 4,2% delle presenze nei canili rifugio. Eppure permane il timore che, oltrepassati i momenti più difficili della pandemia, con il tanto atteso ritorno alla “normalità”, questa non porti niente di buono per gli animali di casa, che, come ci ricorda l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, sono prevalentemente cani e gatti, ma anche tartarughe, uccelli, criceti, conigli, pesci e asini. «Purtroppo – dichiara Ilaria Innocenti, responsabile LAV area animali familiari – il timore non è infondato, perché alla leggerezza con la quale si è introdotto un cane o un gatto nella propria famiglia, in diversi casi ha fatto seguito il fenomeno delle cosiddette rinunce di proprietà ossia la cessione dell’animale a un canile o a un gattile». Il report annuale della LAV è in fase di ultimazione, ma, pur non essendo ancora completi i dati che si stanno raccogliendo, è possibile anticipare che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Le adozioni dei cani, lo scorso anno, non sembrano essere aumentate rispetto al 2018, anno a cui si riferisce il rapporto LAV sul randagismo 2019, e ciò trova conferma anche dai dati pubblicati sul sito del Ministero della Salute aggiornati al 2020, anno in cui sono stati adottati 42.360 cani. Tante sembrano essere le ragioni poco “ragionevoli” che sarebbero alla base del fenomeno. Festosamente accolti in casa nei giorni del lockdown, dispensatori di quel calore vitale che i filtri del distanziamento avevano reso più raro e complicato, cani e gatti potrebbero essere improvvisamente diventati dei pesi. I motivi, per Ilaria Innocenti, sono vari. «Innanzitutto, la crisi economica che si è acuita con la pandemia, l’incapacità di gestire il cane o il gatto una volta tornati alla normalità, la scarsa consapevolezza di ciò che significa vivere con un animale e dell’impegno che questa scelta comporta. A ciò si aggiunga la morte di persone perlopiù anziane e nessun parente disposto a prendersi cura dell’animale». E dire che da tre anni a questa parte è cresciuto progressivamente il numero di italiani che hanno in casa almeno un animale. Secondo il 33° Rapporto Italia era il 32,4% nel 2018, il 33,6% nel 2019, il 39,5% nel 2020, sino a raggiungere la quota del 40,2% nel 2021. Un dato che fa temere un effetto boomerang, perché se la quota di proprietari di animali d’affezione è cresciuta in soli tre anni del 7,8%, ciò potrebbe valere anche per il numero degli abbandoni. È la paura di molti attivisti impegnati nella tutela degli animali domestici. Paura condivisa anche dalla LAV. «Secondo quanto emerge dal territorio anche gli abbandoni dei cani sembrano in aumento, ma quello dei gatti lo è certamente anche perché questi ultimi nella maggioranza dei casi non sono identificati con il microchip e, in conseguenza di ciò, è più difficile risalire all’autore dell’abbandono. I dati che stiamo ancora faticosamente raccogliendo da alcune regioni (motivo per il quale il rapporto non è ancora uscito) sono relativi al 2020 e dunque non è possibile fare nemmeno una stima degli abbandoni post lockdown». Eppure il quadro normativo che punisce e sanziona la condotta di chi abbandona o maltratta un animale è, in Italia, diventato più severo. Sulla carta, almeno. C’è, infatti, da chiedersi perché le recenti disposizioni normative che vietano e severamente puniscono i maltrattamenti degli animali non siano riuscite ancora a contrastare con efficacia questa triste piaga. Per Carla Rocchi, presidente nazionale dell’ENPA, la risposta è semplice. «Lo è davvero – dichiara – perché le pene previste per i maltrattamenti vanno, come per ogni altro reato, da un minimo ad un massimo. I magistrati, tranne che in qualche raro caso di particolare sensibilità, comminano sempre la pena minima, il che vanifica nei fatti la funzione di deterrente o di giusta punizione prevista dalla norma. Basterebbe elevare le pene minime previste. Forse allora, finalmente, qualche delinquente andrebbe giustamente in galera». Alla politica del bastone si potrebbe poi sommare il ricorso alla carota, intervenendo e investendo in quei campi come l’intelligenza ecologica e la sensibilità ambientale che possono aiutare a inquadrare sotto la giusta luce la questione dei diritti degli animali.

(fonte Eurispes)


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