Armiamoci e partite: siamo al riarmo, in Europa. Certo è irrituale. A Sun Tzu, che di queste cose ha scritto secoli fa in maniera fin troppo chiara, non sarebbe mica parsa una furbata. Annunciare, adesso, di volersi armare per poter chissà quando esercitare, nella migliore delle ipotesi, una forza deterrente per blindare i confini. A maggior ragione quello orientale. Ma tant’è. Dopo aver svuotato gli arsenali, dopo aver spedito in Ucraina mezzi, munizioni e talora fondi di magazzino, è giunta l’ora, per l’Europa, si ricostruire il suo potenziale bellico. Certo, c’è tanto in ballo. Ci sono gli americani che minacciano di andarsene via dall’Europa, pretendendo, come una sorta di buonuscita, l’acquisto di pacchetti imponenti di armamenti made in Usa. Ci sono i cinesi che hanno in mano le supply chain che contano e che, sui temi più scottanti e strategici, dalla digitalizzazione fino alle terre rare, esercitano un potere strategico che nulla ha da invidiare proprio agli statunitensi. Ci sono, poi, gli interessi delle classi dirigenti di ogni singolo Stato, che premono per rafforzare sé stessi o per non farlo affatto, di sicuro non per mettere su un esercito europeo unico. Eppure, come indicato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante le celebrazioni delle Forze Armate il 4 novembre scorso, è giunta l’ora di pensare alla “creazione di una comune forza di difesa europea”. Altrimenti, fosse solo per una questione “dimensionale” nessuno ne uscirebbe vivo. Non funzionerebbe in ogni ambito dell’economia, figurarsi in un eventuale scenario bellico in cui l’economia è l’unica, e vera, arma capace di fare la differenza.
Il tema del riarmo è delicatissimo. Perché impatta, direttamente, sulla vita dei cittadini. A maggior ragione di quelli europei. L’incubo di un conflitto sembra esorcizzato dalla retorica degli ultimi decenni di pace. Su cui, peraltro, s’è fondato buona parte del consenso dell’opinione pubblica attorno alla costituzione dell’Ue. Va da sé, dunque, che si avverta il cortocircuito se, a parlare di riarmo, sia proprio l’Unione europea. E di certo non aiuta il fatto che lo si faccia, poi, sullo sfondo di un conflitto, quello tra Russia e Ucraina, in cui Bruxelles sembra non toccare palla sui tavoli che contano e mentre Washington minaccia dazi mostruosi se non verranno, amichevolmente, garantiti sontuose commesse al loro efficientissimo comparto della sicurezza. Insomma, politicamente, è un bel problema. Il fatto che ogni crisi nasconda un’opportunità è un cliché insopportabile. Ma, come ogni luogo comune, un briciolo di verità lo nasconde. L’Europa non può che riarmarsi, avendo finito le sue scorte, e il riarmo potrebbe rappresentare, per il Vecchio Continente, un’occasione di rilancio per la sua esausta produttività. A patto di venir gestito bene e non come un’insidia. Insomma, occorre rassegnarsi al fatto che verranno spesi miliardi per ricostituire gli arsenali, col rischio di un’escalation. Bisogna solo sperare che almeno una parte, la più grande possibile, sia dirottata sul Made in Ue. E che le aziende, anche quelle che decideranno di riconvertirsi, e gli Stati conservino un modello aziendale quanto più europeo sia possibile. Altrimenti sarà stato tutto inutile.
Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha chiamato le imprese del settore a un atto di coraggio che, per l’ex premier olandese, avrebbe dovuto squillare come una carica di cavalleria per il riarmo dell’Europa: “Tempi pericolosi richiedono un’azione rapida, e questo richiede un certo grado di tolleranza al rischio da parte di tutti noi. Ai leader viene chiesto di assumersi il rischio politico, mentre all’industria viene chiesto di assumersi un certo rischio d’impresa”. Peccato, però, che più che rischio quello di riconvertire la produzione sia diventata una necessità per tante, troppe, aziende. A cominciare da quelle tedesche. Ha avvertito gli europei e, più in generale, il fronte occidentale: “Non possiamo essere ingenui, dobbiamo essere preparati”. Per farlo, però, occorrerebbe pure dar qualcosa in cui credere. Specialmente agli europei che, di sicuro, non hanno la minima intenzione di farsi falciare in trincea per difendere i vincoli di bilancio in Costituzione, o i limiti alle emissioni di Co2, i tagli continui alla previdenza per far felici i mercati, il progressivo ridimensionarsi dello stato sociale a fronte di un sistema produttivo che adesso paga, amaramente, il costo (imponente) della strategia avida delle delocalizzazioni a tutti i costi. Così, lontano dalla visione di de Gaulle (che pure sperava, con l’atomica francese, di mettere il cappello su una forza armata continentale), ogni proclama non sembra diverso dal proverbiale “armiamoci, e partite”.
A partire, intanto, sono già stati proprio gli industriali. Che, come spesso accade, si dimostrano molto più elastici di chi si ritrova a Bruxelles a stilare regolamenti. Gli italiani di Confindustria, insieme ai colleghi francesi di Medef e ai tedeschi di Bdi, hanno rivolto l’ultimo (estremo?) appello ai burocratici brussellesi. Sintetizzabile nell’efficace slogan pronunciato da Emanuele Orsini: “Un’Ue che non fa è un’Europa che non serve”. Tra i sei punti del documento, c’è (anche) la Difesa. Che rappresenta una priorità per gli industriali di Italia, Francia e Germania, per cui hanno chiesto, tra le altre cose che “il fondo Europeo per la competitività destini risorse adeguate ai settori della difesa e dello spazio, coinvolgendo attivamente l’industria nella definizione delle priorità”. E la richiesta è stata accompagnata da un impegno che tutto è fuorché banale: “La dichiarazione richiama inoltre la necessità di rafforzare le partnership industriali tra Francia, Germania e Italia, per costruire una base tecnologica comune e raggiungere economie di scala”. In pratica, lavorare per creare, rafforzare e difendere, su scala continentale, tutte le catene del valore che possono essere legate al comparto Difesa. Un modello, quello della cooperazione, che funziona al punto che, nei giorni scorsi, la joint venture Leonardo-Rheinmetall ha ottenuto un contratto di fornitura di 21 nuovi tank A2CS Combat, da destinare all’Esercito italiano, garantendo che il 60% delle procedure verrà realizzato in Italia per dare sostegno al sistema produttivo nazionale.
Un progetto, questo, molto ambizioso. Perché dimostra, come è fin troppo noto, per costruire un carro armato, un aereo, anche un solo proiettile, è necessario avere le materie prime, le tecnologie per produrle, quelle per difendere i progetti segreti. Si va, in pratica, dalle miniere fino alla cybersecurity. Un mondo. Che è cambiato. L’America non ci difenderà più. In teoria. E, seppur i costi delle basi americane, in Europa, non siano stati tutti sulle spalle degli Usa (a cominciare da quelli politici…), occorre iniziare a pensare altrimenti. Come ha sbuffato il ministro della Difesa Guido Crosetto secondo cui è necessario ripensare a fare delle forze armate un sistema efficiente più che inclusivo, riconoscere che servono (almeno) altri 30mila soldati solo all’Italia, toglierli dal fare le belle statuine agli incroci delle città per far contento qualche sindaco e restituirli al loro mestiere. Quello, appunto, di militari.