L’inganno dello “stretch” e la chimica che (forse) ci salverà
di GIOVANNI BATTISTA RAGGI
Ci siamo costruiti un guardaroba di mostri ibridi. Apriamo l’armadio e non troviamo quasi più purezza, ma “chimere” tessili. Ovunque, onnipresente, c’è l’elastomero, quella fibra morbida che garantisce la comodità stretch a cui non sappiamo rinunciare, ma che si avvinghia al nylon in un abbraccio molecolare letale per il riciclo.
Quando inseriamo questi indumenti nel contenitore stradale dedicato, ci sentiamo a posto con la coscienza, convinti di fare la nostra parte per il pianeta. Ma la realtà industriale che si nasconde dietro quel gesto automatico è spietata. I numeri smentiscono il nostro ottimismo: l’80% dei capi dismessi finisce ancora in discarica o viene incenerito. Non stiamo parlando solo di un problema ambientale, ma di una voragine economica che grida vendetta: secondo uno studio del Boston Consulting Group, questo accumulo di rifiuti corrisponde a 150 miliardi di dollari di materie prime disperse. Miliardi letteralmente sepolti sotto terra perché non abbiamo la tecnologia o la convenienza per recuperarli.
Spesso ci raccontiamo che la soluzione sia tornare alla semplicità. “Basta comprare fibre pure”, ci dicono. È il mito del monofibra, l’idea rassicurante che basti eliminare le mischie per risolvere il problema. Purtroppo, anche questa è una mezza verità. Anche quando un capo è “puro”, il riciclo meccanico tradizionale stressa le fibre, portando spesso a un materiale di serie B in quel processo di declassamento che chiamiamo downcycling.
Ma il vero dramma si consuma nel mercato dell’usato, quel settore che per decenni ha retto economicamente l’intera baracca della raccolta differenziata. Oggi quel meccanismo è rotto. Il fast fashion ha inondato il mondo di abiti di bassissima qualità che non hanno valore di rivendita. A certificare il disastro ci ha pensato l’ACR+ (l’Associazione delle città e delle regioni per la gestione sostenibile delle risorse), che proprio in questi giorni ha lanciato un allarme rosso ai decisori politici europei. In una lettera aperta, l’associazione denuncia il rischio imminente di un collasso della catena del valore del tessile usato. Con l’obbligo di raccolta scattato nel 2025, i comuni si trovano sommersi da volumi crescenti di “rifiuti” che non riescono a vendere, mentre i costi di gestione esplodono.
Mentre la politica cerca fondi di emergenza per evitare la paralisi, l’industria italiana risponde provando a risolvere il problema alla radice chimica. A Novara, Radici Innova ha brevettato una tecnologia capace di separare ciò che la chimica sembrava aver unito per sempre: il nylon e la lycra. Per anni i tentativi erano falliti perché, alzando le temperature per sciogliere i polimeri, la lycra si autodistruggeva. La svolta è arrivata lavorando “a freddo”: abbassando la temperatura sotto i cento gradi – con un risparmio energetico evidente – la fibra ha ceduto, permettendo la separazione senza l’uso di solventi tossici.
Il vantaggio ambientale è certificato: recuperare queste fibre per produrre nuovi filati abbatte le emissioni di anidride carbonica di oltre il 50% rispetto all’uso di materiale vergine. È la dimostrazione del closed loop: da un vecchio costume da bagno o da un intimo dismesso può nascere un nuovo capo.
Tuttavia, dobbiamo essere onesti sulle proporzioni e non cadere nell’ennesimo alibi psicologico. Per quanto geniale, questa tecnologia è, ad oggi, una goccia nel mare dei rifiuti. L‘impianto pilota che nascerà nello stabilimento di Novara partirà con una capacità di lavorazione di appena 30-50 tonnellate all’anno. L’obiettivo industriale futuro è toccare quota 2.000-3.000 tonnellate.
Una cifra importante, che però scompare se messa a confronto con un mercato globale che brucia 150 miliardi di dollari di materie prime. La sproporzione è evidente. La scalabilità industriale di questi processi è la vera scommessa e il target per rendere disponibile tessuto sufficiente per il mercato è fissato solo al 2026. L’esistenza di una tecnologia di separazione è una notizia straordinaria, ma rischia di diventare una scusa pericolosa. Sapere che “si può riciclare” non deve autorizzarci a continuare a comprare e gettare con la stessa voracità. La chimica ci offre una speranza tecnica, ma non esiste un impianto magico capace di digerire istantaneamente la nostra bulimia di acquisti. Senza una riduzione a monte, la tecnologia di Novara resterà un gioiello ingegneristico incastonato in una montagna di rifiuti ingestibili.
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