Robert Kennedy, cent’anni dopo: il fantasma che ci interroga
Un anniversario che non è solo memoria, ma un giudizio sulla politica contemporanea
Bob Kennedy nasce il 20 novembre 1925 e cresce in una famiglia che diventa simbolo della politica americana. Procuratore generale, senatore, candidato alla presidenza: la sua carriera è breve ma intensa. Non era un teorico astratto, ma un uomo che si sporcava le mani. Visitava i quartieri poveri, parlava con chi non aveva voce, denunciava fame e discriminazione. In un’America lacerata dal razzismo e dalla guerra in Vietnam, Kennedy rappresentava la possibilità di una politica diversa: meno calcoli, più coscienza. La sua uccisione nel 1968 non ha tolto solo un leader, ha tolto una direzione.
Il linguaggio che oggi non sentiamo più
Kennedy non parlava di “engagement” o di “strategie di comunicazione”. Parlava di dolore, compassione, giustizia. Dopo l’assassinio di Martin Luther King, disse che l’America non aveva bisogno di odio ma di amore e saggezza. Era un linguaggio semplice, diretto, ma tagliente. Oggi la politica sembra preferire il consenso immediato, il messaggio che non offende, la frase che raccoglie applausi. Il contrasto è evidente: Kennedy usava le parole per scuotere, non per compiacere.
Un’eredità da preservare
Cento anni dopo è celebrato con cerimonie e anniversari. Ma il rischio è che resti solo un nome da ricordare, un volto stampato su un manifesto. Il suo messaggio, invece, era un invito a guardare la realtà senza filtri: la giustizia non è marketing, la compassione non è un hashtag, la politica non è un mestiere per chi vuole piacere a tutti. Kennedy ci ricorda che la democrazia vive solo se ha il coraggio di affrontare la sofferenza. Non basta commemorare, bisogna raccogliere la sfida.
Le parole scomode
Robert Kennedy non può tornare, ma può ancora giudicarci. Cento anni dopo la sua nascita, la sua voce ci ricorda che la politica è il coraggio di guardare negli occhi la sofferenza e di non voltarsi dall’altra parte. La vera commemorazione non è una cerimonia. È chiedersi se abbiamo ancora la forza di dire parole scomode, di difendere chi non ha voce, di cambiare invece di compiacere. Se non lo facciamo, il centenario di Robert Kennedy resta un anniversario vuoto. Se lo facciamo, diventa un atto di riparazione verso la democrazia.
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