Attualità

Rotta sull’Africa: identità multiple e ruolo dell’Italia

di Redazione -


di Fabrizio Lobasso*

 

Lo scorso 15 dicembre il Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha lanciato il “Partenariato con l’Africa”, documento di policy strategica del nostro Paese verso il Continente africano. Un momento di sintesi tra la nostra visione dell’Africa, la consapevolezza di agire in un continente dove si intrecciano complesse iniziative internazionali (non sempre in compagnia di paesi like-minded) e l’immagine che noi pensiamo i paesi africani abbiano di noi. Una dimensione che richiede pragmatismo, perseguendo la realizzazione degli interessi nazionali come la necessaria crescita sociale ed economica dei nostri partner.

La competizione internazionale per le risorse naturali, i nuovi mercati, le opportunità di investimenti in settori di nuova generazione, l’influenza economico-commerciale (quando non politico-militare) in alcune aree del continente, di questi tempi evoca spesso un new scramble for Africa, nel quale paesi come l’Italia soffrono lo svantaggio di una caratteristica tradizionale in politica estera: l’assenza di agende segrete o di un tratto predatorio nelle relazioni con i paesi dell’area. Eppure, mai come oggi, l’Africa si presenta come un blocco tutt’altro che monolitico, suddiviso in settori di influenza e intervento primario, ad alto tasso di instabilità, dove la rivalità internazionale (talvolta ammantata da confrontazioni di soft power) assume caratteri di vero e proprio clash of civilization.

Con fatica, si riannodano i fili del dialogo in Libia, da ultimo con la visita del Ministro Di Maio con gli omologhi francese e tedesco, e sotto uno sguardo americano più interessato (anche al ruolo stesso del nostro Paese in questo delicato frangente), a parziale compensazione della perdurante invasività politica e militare di Russia, Turchia, Egitto, Emirati. Più in generale, assistiamo a una contesa senza quartiere nel bacino dell’Africa Mediterranea, che alcuni giocano attraverso la strumentalizzazione dei fenomeni migratori, l’adozione di geostrategie indiscriminate per assicurarsi le rotte energetiche, e la minaccia dell’espansione del radicalismo violento e della criminalità organizzata verso le sponde europee. Si moltiplicano le iniziative di collaborazione internazionale nella regione del Sahel – in genere a guida francese – sempre più inteso come regione espansa verso Est (oltre il Chad) e a Sud, ad incontrare la Regione dei Grandi Laghi. La scarsità di risorse primarie, l’impoverimento da cambiamenti climatici e disastri naturali, il crescente distacco tra il potere istituzionale e la cittadinanza, l’uso capzioso delle ideologie jihadiste e ribelli per mascherare la criminalità comune, generano profonda instabilità, e un malcontento sociale che sfocia in episodi di violenza, in uno scenario in cui spesso è difficile individuare i reali avversari.

Un teatro complesso, ove Ue, Francia, Germania, Italia, Spagna armonizzano sempre di più la collaborazione attraverso la “Coalizione per il Sahel”, un’architettura basata sui quattro pilastri della cooperazione militare (ad esempio con l’operazione “Takuba”), il capacity building per la sicurezza e l’ambito civile (“Partnership for Security and Stability in the Sahel – P3S”), e la cooperazione allo sviluppo (“Alliance pour le Sahel”).

Uno scenario sui cui pendono le incognite di una scarsa capacità di “force generation” dell’azione integrata militare dei paesi saheliani del G5, di un impegno americano visibile ma intermittente, di una narrativa ingrigita sull’impegno dell’Onu, del ruolo della Cina e della sua invasività politico-finanziaria, foriera più di benessere condizionato che di sviluppo sostenibile, infine della Russia, fautrice di una politica di potenza e di un pragmatismo spesso più attraente dei faticosi percorsi di emancipazione in ambito diritti umani e libertà fondamentali, proposti ai paesi dell’area per assicurarsi la collaborazione dell’Ue. Non meno complessa è la situazione nella regione del Corno d’Africa allargato, dove l’azione pervicace di alcuni partner internazionali rappresenta forse un elemento divisivo aggiuntivo sulla strada della sempre meno realizzabile triade “sicurezza-stabilità-sviluppo”. Le Monarchie del Golfo hanno esportato la dura confrontazione intra-islamica in paesi come Eritrea (sempre più isolata dal resto del mondo), Sudan, Somalia, Etiopia rallentando le dinamiche di cooperazione dell’area, asservendole a interessi monodirezionali, espressi sotto forma di aiuti finanziari condizionati e di supporto alle iniziative religiose e culturali dai contorni pacifici non sempre definibili, e attraverso alleanze strategiche con paesi avversari come Turchia ed Egitto.

Anche Turchia, Egitto, Cina, Russia sono molto presenti in Africa orientale, con investimenti, alleanze commerciali e culturali, addestramento militare, giovani generazioni nelle proprie accademie. E di nuovo, si osserva una relazione sbilanciata per i paesi del Corno, in termini di identità-paese (si pensi all’Etiopia e all’irrisolto problema del suo federalismo etnico), di capacità di buon vicinato (vedi la recente rottura delle relazioni diplomatiche tra Kenya e Somalia), di buon governo, di dialogo interetnico e di auto-sostenibilità.

Ombre avanzano sulla contesa etio-egiziano-sudanese per la costruzione della Diga del Rinascimento (GERD) su suolo etiope, il cui nuovo riempimento dell’invaso previsto da Addis Abeba per la prossima estate spinge Il Cairo (per la necessità di controllo dei flussi fluviali del Nilo) a un nuovo tentativo di internazionalizzazione della questione, cercando una sponda arbitrale negli Usa (attivi ultimamente nel Corno d’Africa), nell’Onu, nell’Ue e nell’Unione Africana (la cui potenzialità coagulante nel continente non sembra decollare).

Infine, per un Sudan in crescita lenta ma costante, sostenuto dalla comunità internazionale, alla ricerca di una nuova identità societaria e comunitaria nell’ambito della (ancora fragile) transizione democratica del post-Bashir, si registrano battute di arresto in Etiopia (con la crisi in Tigrai) e Somalia (nei rapporti turbolenti tra governo federale e Stati federati), dove le dinamiche centrifughe dettate dall’appartenenza etnica e clanica, e dalla sete di potere prevalgono sul dialogo inclusivo, sul comune interesse a radunare le forze davanti alle sfide della rinascita post-pandemica. Si allontana nei due paesi la possibilità di elezioni consapevoli, e si avvicina il muro a muro tra contendenti, gruppi tribali ed interlocutori istituzionali privi di visione. Preoccupano poi il disgregamento territoriale e societario, il peggioramento dello stato di diritto, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in paesi africani da sempre icone della stessa identità continentale, come la Repubblica Democratica del Congo, la Nigeria, il Camerun, lo Zimbabwe, corrosi da corruzione, lotte intestine, estremismo violento, dinamiche separative e condizioni socio-economico-sanitarie al cui peggioramento fa eco la crescita di cittadinanza vulnerabile. Il tutto, sotto gli occhi distratti di quella parte di comunità internazionale che preferisce guardare altrove in assenza di dividendi nazionali.

Diverso il discorso per il Mozambico, ove l’avanzata del terrorismo jihadista, la conquista di aree strategiche a Cabo Delgado e i pericoli connessi a una crisi ingestibile in aree di alto approvvigionamento energetico, hanno smosso le acque internazionali, la Coalizione anti Daesh e l’attivismo di Ue e Stati Uniti nell’ottica di una controffensiva a difesa delle istituzioni centrali.

Il “Partenariato con l’Africa” definisce in maniera molto chiara le nostre priorità geostrategiche in Africa e le modalità per perseguire al meglio l’interesse nazionale.

Promozione di pace, sicurezza, good governance e diritti umani; gestione virtuosa dei fenomeni migratori; alleanze commerciali e investimenti alla ricerca di nuovi mercati per le nostre imprese; cooperazione allo sviluppo, contrasto ai cambiamenti climatici, cooperazione culturale e scientifica. Temi su cui l’attenzione italiana continuerà a focalizzarsi, a patto che l’impegno sia accompagnato dalla consapevolezza dell’importanza di perseguire un livello apprezzabile di condivisione valoriale con i nostri partner africani, per rafforzare la nostra narrativa positiva in termini di coerenza e moderazione, e colmare lo svantaggio rispetto ad altri competitor.

Attesa l’importanza di alimentare crescenti occasioni di cooperazione multilaterale nel Mediterraneo per tutelare le nostre fonti di rifornimento energetico e stornare la minaccia di radicalismo di importazione, sarà fondamentale per l’Italia continuare a tessere una tela internazionale allargata, per mantenere aperta la porta del dialogo, delle soluzioni negoziali, evidenziando in ogni sede l’interesse comune a sviluppare una vera e propria diplomazia energetica ed ambientale, attraverso cui coagulare l’interesse comune dei nostri partner.

Questo vale anche per la gestione dei flussi migratori irregolari verso il Mediterraneo e il connesso allontanamento della minaccia jihadista e criminale proveniente dall’area del Sahel. In tal senso, il Ministero degli Esteri ha cominciato un cammino importante, attraverso il rafforzamento della presenza diplomatica nell’area (con l’apertura delle sedi in Guinea Conakry, in Burkina Faso, in Niger, a breve in Mali e prossimamente in Chad). È nella presenza sul territorio, infatti, nella cooperazione diretta e non solo mediata a Bruxelles o a New York, nell’analisi consapevole delle dinamiche locali che il nostro Paese potrà continuare ad avere un ruolo di primordine in termini di cooperazione comunitaria ed internazionale.

Sarà poi importante assicurare il coordinamento dei vari corpi dello Stato e il prosieguo della partecipazione ai vari formati multidimensionali di collaborazione nella regione e alle missioni militari di pace, come di recente operato con “Takuba”, con la presenza del nostro contingente in Niger, con l’adesione alle missioni europee EUTM ed EUCAP di Mali e Niger e la formazione in ambito sicurezza, diritti umani, processi elettorali, stato di diritto, good governance. In quegli scenari, peraltro, l’alto livello di preparazione della componente istruttiva italiana e la non comune capacità di adattamento alle condizioni locali rendono la collaborazione del nostro Paese altamente auspicabile anche dagli altri partner internazionali.

Nel Corno d’Africa le crescenti tensioni centro-periferia stanno azzerando gli effetti postivi degli accordi di pace etio-eritrei del 2018. Nell’area l’Italia gode di rispetto, e capitalizza una tradizionale postura moderata anche in paesi complessi come l’Eritrea. In altre parole, nel Corno si sente il bisogno di una maggiore presenza dell’Italia. La recente visita del ministro Guerrini a Gibuti e Mogadiscio va nella direzione indicata. In piena comunanza con le priorità strategiche dell’Ue, vi è la necessità di stabilizzare l’area del Corno per evitare una “balcanizzazione” della regione; è importante preservare la sicurezza delle rotte navali e commerciali nel Mar Rosso; gestire le dinamiche migratorie e criminose per evitare che, attraverso i porosi confini sudanesi, si congiungano (rafforzandosi) all’area saheliana, o a sud verso la Tanzania e il Mozambico (dove abbiamo un legato importante); indebolire la capacità espansiva di Al Shabaab in Somalia, oggi più resiliente, capace di legami logistico-organizzativi ad ampio spettro con ulteriori aree africane (Etiopia, Nigeria, Camerun, Niger, Burkina Faso), sempre pronta a colmare i vuoti istituzionali in alcuni stati federati del paese.

Sarà importante capitalizzare il patrimonio etiope di gratitudine e rispetto verso l’Italia, per interpretare con efficacia e realismo il ruolo negoziale dell’Ue (e Usa) mirato alla cessazione dei combattimenti in Tigrai, al rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario e a stimolare un dialogo nazionale genuino e inclusivo, pur nella difficoltà della collaborazione tra istanze etnico-politiche distanti.

In un orizzonte più vasto, sarà importante per il nostro paese continuare a dare un contributo visibile al multilateralismo e all’integrazione continentale nell’ambito delle organizzazioni regionali africane.

L’Italia, con il suo tradizionale posizionamento concentrico negli ambiti geopolitici mediterraneo, europeo e atlantico, meglio di altri può evidenziare con credibilità ai partner africani i vantaggi positivi di un approccio integrazionista alle relazioni internazionali.

Il 2021 è un anno significativo per il nostro Paese in ambito africano, con la presidenza del G20 e la co-presidenza della COP26. I numerosi fora di dialogo ci consentono di evocare l’impegno internazionale per accelerare sul cammino dell’integrazione continentale – rafforzando i meccanismi di unione doganale della Area africana di libero scambio (AfCFTA) – o di un approccio integrato e solidale al tema del debito dei paesi africani – ampliando il raggio della Debt Service Suspension Initiative (DSSI). O ancora, attirando l’attenzione internazionale – con importanti eventi ministeriali di settore come “Incontri con l’Africa” del prossimo ottobre – sulla necessità di un approccio comune ai cambiamenti climatici e alla transizione energetica nel continente africano, per favorire adattamento, resilienza, trasformazione, nel nome di benefici condivisi derivanti dal rispetto e dalla difesa dell’ambiente e della ecosostenibilità.

*Diplomatico, Vicedirettore centrale 

per i Paesi dell’Africa Sub-Sahariana 

del Ministero per gli Affari Esteri


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