Economia

SEI FUORI! L’anno dei licenziamenti economici

di Cristiana Flaminio -


Il 2022 è stato l’anno dei licenziamenti economici. Le aziende, scavallato il termine fissato dal governo in pandemia, hanno scaricato la forza lavoro e gli esuberi. I dati dell’Inps parlano chiaro: il trend ha fatto registrare un aumento del 41 per cento rispetto al 2021, le cifre sono spaventose. Complessivamente, le cessazioni sono state 7.617.000, il 16 per cento in più rispetto all’anno precedente. Risultano in aumento per ogni tipologia di contratto. La performance peggiore è legata ai rapporti intermittenti (+27%) e agli stagionali (+18 per cento). Non se la passano benissimo nemmeno gli apprendisti (+14%) e gli assunti a tempo indeterminato (+12%). Aumentano le cessazioni anche nell’ambito dei contratti di somministrazione (+11 per cento).
A fare la parte del leone sono i cosiddetti licenziamenti economici. Quelli, cioè, decisi dalle aziende perché non ce la fanno a mantenere i livelli occupazionali. Secondo l’Inps, il dato va letto contestualizzandolo. Inutile fare il paragone con il 2021 o addirittura col 2020. Perché, come fin troppo noto, i licenziamenti erano stati bloccati durante la pandemia per evitare esuberi in massa. Quando il divieto è stato revocato, le imprese hanno ripreso a consegnare il benservito. Gli analisti dell’istituto di previdenza, però, invitano a fare il raffronto con il 2019. E qui, secondo le comparazioni, si registrerebbe un tonfo (pari a un quarto del totale, cioè al 25%) del numero dei licenziamenti economici. Salgono, invece, quelli disciplinari, gli allontanamenti dovuti a cause indipendenti dallo stato economico delle imprese. Nel 2022 sono stati ben 36mila in più rispetto al 2019.
Un dato che fa riflettere, poi, riguarda le dimissioni volontarie. Che, nel 2022, sono state molte di più che in passato. In particolare, secondo i rilievi Inps, sono aumentate del 10% rispetto al 2021 e addirittura del 24% al confronto con il 2019. Anche in questo caso, peserebbe il blocco dei licenziamenti e delle dimissioni nel 2020. Tuttavia, sullo sfondo, avanza lo spettro sempre più minaccioso della great resignation, ossia dell’aumento delle dimissioni da parte dei dipendenti che si sentono sempre meno coinvolti nelle imprese e, pertanto, si ritengono sempre sul mercato. Disponibili a passare da un lavoro all’altro, o a prendersi periodi sabbatici, senza farsi troppi problemi. Un problema, questo, per le imprese. Che affrontano spesso e volentieri specialmente in relazione ai lavoratori più giovani.
Non va granché meglio nel comparto della pubblica amministrazione. Dove, come denuncia il segretario Uilpa Sandro Colombi: “Le cifre non sono affatto confortanti. Il confronto sul totale dei pubblici dipendenti negli ultimi dieci anni segna un’apparente stabilità, -1,1%, corrispondenti a 36.000 posti. Una lettura più attenta rivela invece che questa modesta flessione è dovuta a un incremento di oltre 100mila del personale della scuola. Tutto il resto è stagnante. Anzi, qualche comparto somiglia a una palude in fase di lento prosciugamento”. E punta il dito: “Malgrado i piani d’assunzione annunciati per il potenziamento della pa, lo snellimento delle procedure concorsuali e gli annunci sull’avvio della staffetta generazionale la previsione è un incremento di appena lo 0,84% dei livelli occupazionali complessivi, che si riduce allo 0,66% per le Funzioni Centrali. Il precariato nel 2021 risulta ancora contenuto come numeri assoluti, ma segna comunque un allarmante aumento del 42% rispetto all’anno precedente”.


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