Attualità

IN GIUSTIZIA – Separazione delle carriere e Costituzione

di Francesco Da Riva Grechi -


Ogni processo penale importante non sfugge al fenomeno dei Procuratori della Repubblica e dei Procuratori generali che, rispettivamente, impugnano le sentenze di primo e di secondo grado, richiedendo ovviamente al giudice superiore una reformatio in pejus nei confronti dell’imputato. Il potere di impugnare del pubblico ministero è un aspetto, molto tecnico e difficile, del principio di obbligatorietà dell’azione penale e non c’è in questa sede lo spazio per trattarne adeguatamente. Tuttavia il continuo esercizio di questo potere, che comunque è da ritenersi eccezionale, evidenzia la distanza sempre più rilevante, che, nella quotidianità della aule dove si esercita la giurisdizione penale, separa le Procure, da un lato, e i Tribunali e le Corti, dall’altro lato. Si tratta di una conseguenza sostanzialmente banale e prevedibile che discende dall’adozione del rito accusatorio, in vigore in Italia dal 1988, che spinge inesorabilmente in questa direzione. Il pubblico ministero è una parte, contrapposta, in condizioni di parità formale, alla difesa, ed entrambe, secondo il codice di procedura, nulla hanno a che spartire con il giudice. Gli organi giudicanti sono terzi ed imparziali, e dunque, almeno formalmente, equidistanti sia dall’accusa, sostenuta dai pubblici ministeri, sia dalla difesa, sostenuta dal ceto forense professionale. Negli ordinamenti dove il rito accusatorio ha una tradizione secolare, è questo ceto, nell’ambito del quale si trovano gli avvocati del libero foro, a fornire i soggetti più capaci agli uffici dell’accusa come ai collegi delle Corti giudicanti, al fine di una migliore selezione del personale di vertice del sistema giudiziario. Secondo razionalità, quindi, la carriera dei giudici, nel rito accusatorio, è assimilabile, nello stesso identico modo, a quella degli avvocati come a quella dei pubblici accusatori. Ecco perché la carriera unica e la semplice separazione delle funzioni è un’anomalia che risale all’ordinamento fascista e sul quale la Costituzione Repubblicana non ha voluto incidere. L’ordinamento attuale, infatti, è disciplinato dall’art. 190, comma 1, del r.d. 12 del 1941, che così dispone: ( la magistratura, unificata nel concorso di ammissione, nel tirocinio e nel ruolo di anzianità, è distinta relativamente alle funzioni giudicanti e requirenti ). La Corte Costituzionale, con sent. n. 37 del 2000, pur osservando che la magistratura è un unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico C.S.M. (art. 104, Cost.), ha affermato che la Costituzione ( non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti o a quelle requirenti …). Dunque, volendo considerare la separazione delle carriere un principio liberale di civiltà giuridica, peraltro da attuare necessariamente per adeguare l’ordinamento giudiziario del 1941 al codice di rito del 1988, l’unico ostacolo di carattere costituzionale riguarderebbe esclusivamente la configurazione dei poteri del C.S.M., come organo di rilievo costituzionale, ma non la magistratura come potere giurisdizionale, distinto dal potere esecutivo e da quello legislativo e dunque non incide in alcun modo sui superiori principi dell’autonomia e dell’indipendenza.


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