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Economia

Se i sindacati si prendono la settimana corta

di Giovanni Vasso -


In questo Paese, le riforme le fanno i sindacati; anzi, se le prendono: la settimana corta è già una realtà. Con cui i romani, ma più in generale gli italiani, hanno imparato a fare i conti. Ormai da tempo, troppo tempo. Andato in archivio il grande sciopero generale del 3 ottobre, Roma si fermerà per l’astensione dal lavoro che riguarderà il trasporto pubblico e in particolare l’Atac. Due mobilitazioni nello stesso giorno per venerdì 10 ottobre: la prima, che durerà 24 ore, riguarda lo sciopero proclamato dall’organizzazione Sul. A cui si affiancherà lo sciopero di quattro ore, dalle ore 8.30 alle ore 12.30, proclamato dalle organizzazioni sindacali Usb lavoro Privato e Orsa Tpl. Finita qui? Macché. Perché la voglia di sciopero, quando c’è, mette le ali e vola, superando ogni steccato, persino quello del pur tradizionale appuntamento del venerdì. Smaltito il weekend, si riparte alla grande: lunedì 13 ottobre, difatti, il personale degli aeroporti romani di Ciampino e Fiumicino incrocerà le braccia. Sarà un (altro) grande sciopero dopo quello che è già andato in scena il 26 settembre, guarda caso di venerdì, che aveva coinvolto oltre al personale di alcune compagnie low-cost, anche i lavoratori di Malpensa e di Cagliari. La mobilitazione di lunedì, però, non impedirà di certo la proclamazione dello sciopero del venerdì. E, difatti, il 17 ottobre si asterranno dal lavoro i dipendenti delle società di igiene urbana, sia pubbliche che private. Si arriverà, così, alla data cerchiata in rosso sul calendario dei tesserati Cgil. Quella del 25 ottobre, che capita di sabato, per protestare contro la manovra. Che, adesso, inizia a prendere forma ma contro cui Landini, preventivamente, aveva lanciato l’idea di scendere in piazza: “Il governo va avanti per i fatti suoi, non sta discutendo con nessuno, perlomeno non sta discutendo con le organizzazioni sindacali”, ha detto ieri a Napoli. Governo che, a quanto pare, non ne vuol sapere di rispondere alle proposte del suo sindacato. A cominciare dal salario minimo. Una proposta che sa un po’ di seppuku per gli ultimi samurai del sindacalismo duro e puro. Accettare un emolumento minimo praticamente per tutti rappresenta, in un sistema all’eterno ribasso come è quello italiano, la negazione stessa dell’essenza del sindacato che, poi, è nella concertazione e la contrattazione dei contratti nazionali. E, difatti, le posizioni massimaliste della Cgil l’hanno portata a rompere con la Cisl, che ha deplorato con forza la convocazione dello sciopero generale per Gaza. A cui la Uil, che pure era rimasta con la Cgil landiniana, non ha aderito e che, anzi, sembra aver accolto con non troppo entusiasmo. Questo, però, è stato solo l’ultimo capitolo di una rottura ormai palese. E che è, ancora una volta, ideologica. Come quando Landini s’è opposto con forza alla proposta di legge csilina della partecipazione nell’impresa dei lavoratori. Anche questa, come il diritto di sciopero, è questione di rilevanza costituzionale. Benché disattesa. Poco male, c’è la settimana corta. E quella si prende, non si aspetta. Anche se il conto è salato: per Conflavoro gli scioperi (in media 3,1 al giorno) costano 5,5 miliardi l’anno al sistema Paese. Questo al netto dei disagi, alle grandi città. Si sciopera più di tutti in Europa, persino più che in Francia. Senza altro costrutto evidente che rendere la vita difficile ai cittadini, alle imprese e ai turisti. Che importa, l’importante non è farle le riforme ma prendersele: i sindacati lo hanno già fatto con la settimana corta. Peccato per gli altri.


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