Sinner ko, a Cincinnati pubblico beffato Cascella: “Non ha giocato per cortesia”
È bastato un colpo d’occhio per capire che qualcosa non tornava. Jannik Sinner, il numero 1 del tennis mondiale, non aveva lo sguardo di sempre. Dentro, 11.600 spettatori paganti lo attendevano come si aspetta un eroe. Biglietti tra i 200 e i 7.500 dollari, un incasso da quasi 6 milioni. Atmosfera da grande finale, la supersfida con Carlos Alcaraz promessa da settimane. E invece, nel giro di cinque game, il sogno si è sciolto sotto il sole dell’Ohio. Il nostro campione non stava in piedi. Lo ha detto lui stesso, lo hanno visto tutti: indeciso, inerte, incapace di scattare su una palla che pure conosceva a memoria. Ha provato a resistere, un gesto di rispetto verso i tifosi, forse anche verso l’organizzazione che da mesi costruiva l’evento. Ma dopo venti minuti era chiaro che non avrebbe potuto continuare. Ritiro, abbraccio con Alcaraz, e la delusione di migliaia di persone rimaste senza partita. Che cosa gli è successo? Le versioni si rincorrono. La prima, banale e feroce insieme: il caldo. A Cincinnati si giocava spesso sopra i 35 gradi, con un’umidità da far girare la testa. Sinner lo aveva già detto: “Condizioni difficili, le più dure dell’anno”. Un avversario invisibile ma costante. Poi la torta. Il compleanno del 16 agosto, festeggiato dopo la vittoria su Atmane. Una parentesi da ventiquattrenne: risate, brindisi, panna montata. Basta poco perché il fisico, già provato dal caldo e dalla tensione, mandi segnali di cedimento. E c’è chi non esclude un malore gastrointestinale, un “cagotto” da alimentazione sbagliata, amplificato dall’aria condizionata che in America è religione. Infine, l’ipotesi più solida: un virus. Febbre a 38 gradi, brividi, debolezza muscolare. Niente infortunio, almeno questo rassicura. Ma il sospetto di un’influenza improvvisa, peggiorata dalla combinazione caldo-freddo, resta il più plausibile.
Perché è sceso in campo?
Resta la domanda centrale: perché giocare sapendo di non poter reggere? In conferenza stampa Sinner ha spiegato: “Sono sceso in campo solo per i tifosi. Speravo di sentirmi meglio, ma non è stato così”. Una scelta di cuore, forse anche di immagine: meglio provarci che lasciare la finale vuota. Nello sport succede che un atleta, pur malato, tenti l’impossibile. A volte va bene, altre no. Questa volta no. Ma c’è anche un altro dettaglio che pesa: al Western & Southern Open la politica dei rimborsi è rigidissima. Se su un campo principale non si completa neppure una partita o si gioca meno di 90 minuti complessivi, non c’è restituzione di denaro. Gli spettatori hanno diritto soltanto a un biglietto gratuito per la stessa sessione dell’anno successivo. In pratica, chi ha speso migliaia di dollari non rivede i soldi, ma può risedersi l’anno dopo. Per questo alcuni si sono domandati se l’organizzazione avesse chiesto a Sinner di provarci almeno un po’, per evitare che la finale diventasse un boomerang economico. Ma l’avvocato Angelo Cascella, esperto di diritto sportivo ed ex giudice del Tas, non è d’accordo: “Non credo che Sinner sia sceso in campo per fare un favore agli organizzatori. Evidentemente ha voluto testarsi, sperando che le sue condizioni potessero migliorare per completare la partita. Questi grandi atleti hanno uno spirito molto competitivo. Nello sport capita spesso che un atleta si senta meglio col passare dei minuti. Qui non è successo”. Il ritiro ha lasciato un vuoto enorme. I 2.000 punti conquistati da Sinner a New York l’anno scorso usciranno la prossima settimana. Alcaraz, con la vittoria a Cincinnati, è in piena corsa per riprendersi la vetta. A Flushing Meadows, se lo spagnolo dovesse trionfare con Jannik in finale, il sorpasso sarebbe matematico. Il pensiero corre anche all’Australian Open di gennaio, quando Sinner ebbe tremori alle mani e vertigini per il caldo, ma vinse stringendo i denti. Questa volta invece non è accaduto. “Sono deluso – ha detto –, ma non volevo togliere nulla a Carlos. Ha giocato un grande torneo. Ora devo recuperare e prepararmi per New York. È l’obiettivo vero”. A Cincinnati resta invece l’eco di un’occasione sfumata. Lo sport è anche questo: attesa, illusione, e a volte resa.
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