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Sospesa perché senza green pass. Il giudice: il Piemonte ha sbagliato

di Maurizio Zoppi -


Dopo mesi di quarantena, anni di pandemia e obblighi vaccinali, i tribunali di Italia iniziano ad emettere sentenze a favore dei no vax. L’ultima in ordine cronologico riguarda la città di Torino. Il tribunale della città granata ha ridato giustizia a dei sanitari sospesi in quanto non avevano eseguito la profilassi vaccinale anti covid. Proprio in questi giorni una lavoratrice piemontese ha ottenuto il risarcimento danni rispetto all’illegittimità dell’obbligo del vaccino. La lavoratrice sospesa è una dirigente di un’Azienda Sanitaria della Regione che, nonostante fosse già a casa in malattia, si è vista decurtare il proprio stipendio. Il giudice ha messo nero su bianco che: “in nome del popolo italiano il tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, accerta l’illegittimità della sospensione”. Per la motivazione bisognerà aspettare al massimo 60 giorni.
Rimanendo nella città di Torino, un altro dipendente dell’Asl era stato sospeso dal suo lavoro e di conseguenza dallo stipendio in quanto non vaccinato. Un riposo forzato iniziato dal 12 gennaio 2022 e prorogato il 10 giugno. Il dipendente ha impugnato il provvedimento e il giudice del lavoro del tribunale di Torino gli ha dato ragione: “non aveva contatti con pazienti, le sue mansioni erano di tipo amministrativo”.
Il dipendente, assistito dal proprio legale, ha avuto il diritto a essere immediatamente reintegrato e l’Asl è stata condannata a pagargli quanto avrebbe percepito nel periodo in cui è stato “illegittimamente sospeso” con somme maggiorate degli interessi legali fino al saldo effettivo.
La sentenza pronunciata il 20 luglio dal giudice Lorenzo Audisio si richiama a un’altra decisione, quella della collega del tribunale di Ivrea del primo luglio scorso, “una vertenza del tutto assimilabile” che aveva già analizzato la norma introdotta per gli operatori sanitari, valutando quale fosse il rischio specifico che aveva indotto il legislatore a introdurre l’obbligo vaccinale. “Un conto è l’impiegato in attività di front office che può tenersi a distanza dagli utenti e può anche essere fisicamente separato da loro mediante barriere fisiche in plexiglas, un altro è il medico o l’operatore sanitario che visita il paziente, gli somministra la terapia e si occupa della sua igiene personale, con un conseguente contatto prolungato e ravvicinato”.
Sempre riportando le parole della sentenza pilota di Ivrea, il giudice prosegue: “Il rischio che si correla all’attività lavorativa del ricorrente non è dunque diverso, anzi, appare decisamente inferiore, a quello della cassiera del supermercato, o dell’impiegato delle poste o della banca. Tutti questi lavoratori entrano giornalmente in contatto con una pluralità di clienti, molti dei quali anziani e probabilmente anche con patologie. Eppure il legislatore non ha previsto l’obbligo vaccinale per queste persone”.
Per i giudici, insomma, è necessario valutare le situazioni specifiche dei lavoratori, non solo l’inquadramento ma le mansioni svolte in concreto, visto che il legislatore vuole tutelare chi è fragile, bisognoso di cure, anziano o con uno stato di salute compromesso. L’intento della legge “non è punitivo” ma di prevenzione. Va quindi allontanato dal lavoro il dipendente non vaccinato solo se considerato una “fonte di rischio per quei soggetti fragili con cui deve necessariamente venire a contatto”.
Ora che l’OMS ha dichiarato conclusa l’emergenza globale, casi e costi di fatto non si contano più. Il virus diventato endemico ha smesso di far paura. Eppure, nel quotidiano c’è ancora. Disinfettarsi è un’abitudine. La mascherina va portata nelle strutture sanitarie a contatto coi più fragili. Per i positivi, circa un migliaio la settimana, è ancora obbligatorio l’isolamento, minimo cinque giorni. E se nei nostri ospedali i ricoverati sono meno del 3 per cento, in corsia quella che stenta ad andar via è la stanchezza del personale.
Secondo una ricerca della Federazione degli internisti ospedalieri (Fadoi), condotta proprio in Piemonte e Val d’Aosta, il 65 per cento dei medici si dice snervato. Tra gli infermieri, solo nell’Asl Città di Torino, denuncia il sindacato Nursind, al 31 dicembre sono state accumulate 24 mila giornate di ferie non godute. Eredità del covid, ma non solo. La nuova sfida è la carenza di camici bianchi. Tre anni, tre mesi e cinque giorni. Tanto è durata la fase in cui la covid è stata considerata un’emergenza globale, o meglio, un’emergenza internazionale di salute pubblica (Public Health emergency of International Concern, PHEIC). Era il 30 gennaio 2020 quando il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus prendeva questa decisione, mentre la Cina raggiungeva i 9.658 casi confermati e i 213 decessi.
Venerdì 5 maggio Ghebreyesus ha annunciato la fine della PHEIC: la CoViD-19 rimane una minaccia per la salute pubblica, ma non è più un’emergenza sanitaria internazionale. “È tempo di passare dalla modalità di emergenza alla gestione della CoViD-19 insieme alle altre malattie infettive”, ha dichiarato Tedros, invitando i vari Paesi a non abbassare la guardia, a non smantellare i servizi sanitari costruiti in questi tre anni e a non far passare il messaggio che il pericolo covid sia ormai alle spalle.

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