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Terapia e pallottole nelle giornate del boss: ecco le intercettazioni

di Rita Cavallaro -


Un uomo braccato, senza più nulla da perdere e pronto a uccidere in caso di irruzione. È questo il volto diabolico di Matteo Messina Denaro, il boss stragista che si nascondeva sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede, un simpatico geometra 60enne incline ai selfie con i medici e dal buongiorno facile verso i concittadini di Campobello di Mazara. Ma dietro la porta della casa di vicolo San Vito, in cui viveva da almeno un anno, la vera natura del capo dei capi si sta rivelando, giorno dopo giorno, agli inquirenti, che continuano a tornare in quel covo per setacciare ogni centimetro, alla ricerca dei segreti del super latitante.
E ieri, nell’ennesima perlustrazione, i carabinieri del Ros hanno individuato un doppiofondo, in un mobile della cucina, dal quale è saltata fuori una pistola. La Smith & Wesson special calibro 38, oltre ad avere la matricola abrasa, era già stata caricata con cinque proiettili in canna, quindi era pronta a sparare se il boss si fosse sentito minacciato. C’erano poi altre venti cartucce. La pistola è stata consegnata al Ris, che è al lavoro per stabilire se l’arma abbia già sparato e se sia compatibile con quelle utilizzate per commettere gli omicidi in cui il capo mafia è implicato. Gli accertamenti sull’arma sono cruciali e puntano a collegare il revolver ad altri più recenti delitti avvenuti nel palermitano, tra i mandamenti mafiosi in conflitto interno per il controllo dei territori. L’attenzione è puntata soprattutto sull’esecuzione di Giuseppe Marcianò, ucciso proprio a Campobello il 6 luglio 2017 e i cui mandanti ed esecutori sono sconosciuti. È dopo quel delitto che i rapporti tra le famiglie palermitane e il clan dei campobellesi erano diventati tesi, tanto che il capo dei capi aveva dato ordine al suo braccio destro, Francesco Luppino, di riportare la pace nei mandamenti. Luppino aveva approntato una squadra di affiliati fedeli, al cui interno c’era pure un picciotto che si occupava esclusivamente di reperire armi “pulite” per il clan e a custodirle quando c’era aria di un’imminente perquisizione. Gli esperti balistici, dunque, vogliono certificare se, quella trovata nella casa comprata dal geometra Andrea Bonafede, sia la storica pistola di Denaro, legata al periodo delle stragi, quando l’armiere del boss era il suo caro amico d’infanzia Giuseppe Fontana, detto PeppeRocky, proprietario del bar Baffo’s Castle di Selinunte, che era una delle basi operative dei 35 fiancheggiatori del padrino, arrestati dai carabinieri del Ros nell’operazione Hesperia del 6 settembre scorso. Se quella Smith & Wesson risultasse essere più recente, come d’altronde credono gli inquirenti, e venisse collegata agli ultimi fatti di sangue, allora sarebbe il segnale non soltanto che il latitante, in quel territorio, si nasconde almeno da cinque anni, ma che lui stesso, oltre a dare ordini, avrebbe agito in prima persona, quando bisognava dare il segnale che era “vivo e vegeto”. I carabinieri sono convinti, comunque, che quel revolver sia stato fornito al boss dai fedelissimi. A conferma un’intercettazione dell’ordinanza di custodia cautelare di Hesperia, registrata dal Ros il 27 aprile 2020, in un incontro tra il diretto emissario di Luppino, Piero Di Natale, e il capo del clan di Marsala, Franco Raia. “”Di fondamentale importanza il passaggio dal quale emergeva che Di Natale mostrava al Raia un’arma (di cui indicavano la marca, Smith & Wesson) e relative cinque munizioni, che veniva da entrambi visionata”, scrive il gip di Palermo, Walter Turturici. “Di queste non la deve toccare nessuno. Hai capito?”, dice Raia. Risponde Di Natale: “Oh… tieni qua… Franco… cinque ce ne sono… e vedi che… bellissima… guardala… Smith & Wesson… non l’avevo visto quant’era grossa… è una Smith & Wesson come a quella di…”. Di Natale si ferma, non fa nomi, ma è chiaro, anche alla luce del ritrovamento di ieri della pistola del boss, che si riferisce al padrino. D’altronde l’emissario, a quel punto, conosceva gli affari più delicati dei vertici, visto che era stato inserito da Luppino nel circuito mafioso più stretto. Tanto che è lui ad avvisare il sodale Marco Buffa, il quale diceva in giro che il latitante era morto, che Ignazieddu, nome in codice del capo dei capi, “è vivo e vegeto. Chiedi scusa. Vedi che è arrivata la notizia di questo discorso… non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto… perché già la notizia gli è arrivata che c’è stato qualcuno che sta dicendo che Ignazzeddu è morto…”. E sempre Di Natale rivela il contenuto di uno degli ultimi pizzini scritti a mano dal boss, in cui aveva indicato la collocazione di una serie di persone nell’organigramma mafioso, di cui però il fiancheggiatore non faceva il nome, e, infine, aveva rassicurato i sodali che lui era “qua come prima, anzi più di prima”. Intanto le perquisizioni si allargano anche ai parenti delle persone vicine al boss. Dopo le perlustrazioni con il georadar a casa del figlio di Giovanni Luppino, l’autista del boss, ieri è stata la volta dei suoceri di Bonafede, sia nell’abitazione che nel magazzino, a pochi metri dalla casa del boss. Nonostante gli immobili siano disabitati, i militari hanno trovato 39 bossoli, documenti e un cane, in buona salute. Indice che qualcuno, forse proprio il boss, usava quei locali e portava regolarmente cibo e acqua all’animale. Intanto dal carcere dell’Aquila, in cui Messina Denaro è detenuto in 41bis, il boss vuole continuare a comandare. O, quantomeno, chiede di avere voce in capitolo sulle sue cure oncologiche. “Non ho ricevuto un’educazione culturale ma ho letto centinaia di libri, sono quindi informato sulle cure, vi prego di poter essere trattato con farmaci e terapie migliori”, ha ripetuto più volte ai medici, con toni pacati e cordiali. “Ho letto centinaia libri sul mio tumore, curatemi bene”, ha aggiunto, chiedendo di poter avere dei farmaci speciali utilizzati in Israele.

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