Cultura & Spettacolo

The Lighthouse: ispida follia 

di Nicola Santini -


Poche volte Netflix mi compra con film cervellotici e con eccesso di condimento. Ma qui c’è dell’altro.
L’ambientazione temporale si colloca verso la fine del 1800. Il protagonista risponde al nome di Thomas Howard, interpetato da un bravissimo Robert Pattinson. Cercando di sfuggire a tutto ciò che vorrebbe lasciarsi alle spalle di un passato che emerge a strati, si fa andare bene un lavoro di quattro settimane come guardiano di un faro sulla costa del New England.
Sul posto l’unico altro essere umano è un soggettone burbero e che ispira poca fiducia. Si chiama Thomas Wake è ha la faccia di Willem Dafoe. La dinamica è presto fatta: Dafoe ha il ruolo di suo supervisore e gli viene piuttosto bene di abusare della propria posizione costringendo il neo arrivato a lavori pesanti ad eccezione di un compito specifico: accedere alla lanterna del faro. I due parlano in un modo tutto loro. Lo studio che si è fatto per dar loro una verosimiglianza con il linguaggio dei marinai e della gente di mare dell’epoca è impressionante: la lingua usata da Pattinson è modellata su uno dialetto adottato nelle aree rurali del Maine nel XIX secolo, mentre lo slang di Dafoe viene direttamente dal vernacolo dei lupi di mare dell’Atlantico alla fine dell’Ottocento. Sullo sfondo di una situazione meterologica sempre più si fa sempre bastarda e con l’aggravarsi in termini di acidità del rapporto tra i due uomini che peggiora di giorno in giorno, a farcire la torta tutta una serie di strani sospetti su quel che accade dentro e intorno al faro iniziano a girare tra i neuroni del malcapitato apprendista, così mentre realtà e delirio, alcol consolatorio e anestetizzante e follia allo stato puroa, trasformano quella permanenza forzata in una spirale incontrollabile e metafisica.
Chi si è fatto le ossa al liceo linguistico tipo me, non può non cogliere certe liturgie alla Coleridge, certi passaggi narrativi, ottimamente illuminati e sequenziati alla Edgar Allan Poe, e goderne un briciolo, trovando un perché a quello che da adolescenti rischia di diventare banalmente uno dei tanti compiti di casa. Fortuna che ho avuto una tipa di nome Artura Fiesoli che a questi scrittori mi ha fatto affezionare comprendendone la forma mentale e giustificando a me stesso la visione della serie come rilettura, sulla soglia della mezza età, di quanto studiato.
Ma non disperino quelli che hanno studiato altro nella vita: perché la poetica di quello che inizialmente, per idea del fratello del regista, doveva uscire come una ghost story (e questo ci sia aspetta da chi ha messo in circolazione The Witch), fila che è una meraviglia e ti tiene lì, un po’ a riflettere, un po’ a indagare, un po’ a fare quella luce e quella chiarezza su ciò che dovrebbe accadere da lì a breve illuminati solo da un faro. Il tutto, dettaglio non da poco, in un bianco e nero non di quelli netti e crudeli ma glamour alla Helmut Newton: è un bianco e nero sporco, livido, lurido, che se lo guardi troppo fa sentire zozzo pure te che lo guardi. Ed è così che il protagonista si sente: da un lato non teme di sporcarsi le mani, dall’altro vuole, vorrebbe sapere con cosa. E soprattutto perché.
Firma del regista, ormai attesa, è l’inserimento di elementi fantastici all’interno di una storia che se non fosse vera potrebbe comunque avere del verosimile.
Elementi iconici della mitologia marina come ad esempio le sirene, certe divinità marittime, tentacoli inverosimilmente grandi e minacciosi, anime tormentate con sembianze animali e spettri diventano sono funzionali per traslare su un piano altro quello che come contesto la cui attendibilità storica ha a dir poco del maniacale.
Maniacalità che si può avvertire dai costumi perfettamente riprodotti, dalle ambientazioni, e dalle costruzioni. La location è stata scelta in una terra così impervia da non aver dovuto richiedere alcun effetto secondario o ricostruito per portare le sciagure meteo che ci si aspettano in un faro sperduto del XIX secolo.
Tanto per intenderci, ecco cosa ha detto il regista circa le giornate improbabili scelte per girare: «non abbiamo dovuto portare degli elicotteri per ricreare un vento alla Béla Tarr».
Per non parlare dei suoni a fiato, perfettamente allineati all’atmosfera dove il vento gioca in attacco continuo: un suon design da far accapponare la pelle accompagna la visione che non fa altro che catapultarti lì, insieme a quei due, visti come da un oblò appannato e polveroso, ricco di fascino e instabilità.

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