Tobagi e il giallo della morte annunciata
Si conclude sul piano giudiziario un altro mistero italiano, legato all’omicidio del giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi. Che avvenne a Milano il 28 maggio 1980 per mano dei brigatisti Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano.
43 anni dalla morte di Walter Tobagi
A 43 anni dall’orrendo fatto di sangue che colpì un bravo cronista di soli 33 anni che voleva capire e indagare il terrorismo come un fenomeno sociale, che aveva ammorbato la nostra dialettica democratica, si conclude una vicenda a margine ai più sconosciuta con una sentenza di condanna per diffamazione. Al centro c’è la figura del brigadiere dei carabinieri, oggi in pensione, Dario Covolo, che il 17 giugno 2004 rilasciò un’intervista al settimanale “Gente” in cui sosteneva che Tobagi poteva essere salvato, come sintetizzava il titolo della rivista che ovviamente non poteva certo essere attribuito al brigadiere. Covolo dichiarò che all’epoca dei fatti, avvenuti 24 anni prima, in qualità di sottufficiale dell’Arma aveva trasmesso ai suoi superiori gerarchici, il tenente colonnello Alessandro Ruffino ed il colonnello Umberto Bonaventura, alcune notizie ricevute dal suo informatore Rocco Ricciardi, che se valorizzate avrebbero potuto impedire il delitto ma che – secondo la tesi dell’intervistato – erano state colpevolmente ignorate dai destinatari.
Respinto il ricorso della Cassazione
Nei giorni scorsi la prima sezione penale della Suprema Corte, presieduta da Monica Boni, ha respinto il ricorso di Covolo volto alla revisione del processo e, pertanto, è diventata ancora più definitiva la sentenza di condanna dalla Corte di appello di Milano del 3 novembre 2009. L’ex sottufficiale Covolo aveva proposto ricorso con l’avv. Nicola Brigida per Cassazione affidandolo a due motivi. Con il primo contestava la violazione della legge processuale e, dunque, il vizio di motivazione perché a suo dire la Corte di appello illogicamente aveva negato la portata innovativa delle dichiarazioni, rilasciate in epoca successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, di Sergio Martinelli, Nicolò Bozzo e Roberto Arlati che, valutate in maniera sinergica, dimostravano che Covolo, prima dell’omicidio di Walter Tobagi, “consegnò ai suoi superiori svariate relazioni, diverse da quella del 13 dicembre 1979 e, rispetto ad essa, sia precedenti che successive, contenenti utili informazioni sul progetto dei terroristi, veicolate da Rocco Ricciardi, che, se adeguatamente utilizzate, avrebbero potuto prevenire l’uccisione del giornalista”. Il secondo motivo del ricorso del brigadiere in pensione cercava di valorizzare ancora la violazione della legge processuale e il presunto vizio di motivazione per avere la Corte di appello di Milano indebitamente affermato, “in contrasto con le evidenze acquisite, che Covolo stesso avrebbe ammesso di avere consegnato ai superiori la sola relazione del 13 dicembre 1979”. Tuttavia, per i giudici in base alle prove ad esempio relative al colloquio telefonico tra Martinelli (collaboratore di giustizia) e il giudice Salvini, in cui il primo aveva rappresentato che Ricciardi gli aveva riferito di aver avvisato le forze dell’ordine circa il progetto relativo ad un attentato che sarebbe stato posto in essere da Marco Barbone nei confronti di Tobagi, minano la credibilità al più di Ricciardi e “non intaccano il complessivo tessuto argomentativo su cui si basa la decisione della quale è chiesta la revisione”. Per la Cassazione “la conclusione raggiunta dalla Corte di appello in merito alla carenza di novità di alcune prove ed alla non idoneità delle altre a sostenere la richiesta di revisione resiste alle censure svolte con il ricorso per cassazione”. Non solo, La Corte di appello ha valutato correttamente la marginalità delle circostanze che Covolo pretende di dimostrare attraverso le testimonianze di Martinelli, Salvini, Avella e Palestra, e la superfluità della nuova audizione di Ricciardi e dell’eventuale confronto con lo stesso odierno ricorrente. Di qui resta provata, per la Cassazione, la sua diffamazione verso i superiori del tempo.
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