Tortora, la ferita di un uomo innocenteIl cinema di Bellocchio la rende universale
C’è un brivido che corre lungo la schiena mentre scorrono le immagini di Portobello, la nuova serie di Marco Bellocchio sul caso Tortora. È un brivido noto, perché gli italiani pensano di conoscere tutto di quella vicenda, eppure ogni volta che viene raccontata riemerge un dolore antico, mai del tutto elaborato. L’arresto di Enzo Tortora, la sua umiliazione pubblica, il carcere, le accuse infondate, la condanna e infine l’assoluzione: una parabola tragica che continua a interrogarci sul senso stesso della giustizia. Bellocchio, da sempre maestro nel trasformare la memoria nazionale in cinema civile, ha scelto questa volta di affrontare uno degli errori giudiziari più clamorosi del nostro Paese. Non un simbolo politico come Aldo Moro, non un personaggio epico come Buscetta, ma un uomo della televisione, un conduttore amatissimo e al tempo stesso controverso, capace di radunare davanti al piccolo schermo ventotto milioni di italiani con il suo Portobello. Un uomo che appariva distante, forse antipatico, ma che incarnava una libertà rara: non democristiano, non comunista, non massone, non allineato.
Il merito di Bellocchio è di non piegarsi alla cronaca, ma di restituire la sostanza dell’ingiustizia: la cecità dei giudici, la fragilità degli imputati, l’irresponsabilità dei media. Perché la vicenda Tortora è stata anche una lezione amara sul giornalismo italiano, pronto a titolare con esultanza “Camorra, la notte della sconfitta” senza chiedersi se l’uomo arrestato fosse davvero colpevole. L’errore giudiziario, una volta consumato, diventa una gabbia da cui è quasi impossibile uscire: e il marchio resta, anche dopo l’assoluzione.
Fabrizio Gifuni, dopo aver prestato corpo e voce ad Aldo Moro nel Rapito di Bellocchio, si conferma uno degli attori più incisivi del nostro cinema. Il suo Tortora non è imitazione, ma incarnazione: gli occhiali calati sul naso, lo smarrimento nello sguardo, la voce incrinata che cerca di resistere al crollo. “Cosa significa – si chiede l’attore – quando qualcuno bussa alla porta e dice: venga con noi?”. È la domanda che ogni cittadino teme, il confine invisibile che separa la normalità dall’incubo. Una ragnatela che, come scriveva Kafka, inghiotte senza spiegazioni. Guardare Portobello significa interrogarsi sulla funzione della magistratura in una democrazia. Nessuno mette in dubbio che la giustizia sia esercitata da donne e uomini onesti, ma il rischio dell’errore esiste, e quando accade è devastante. Per l’imputato, che vede la propria vita distrutta; per la società, che perde fiducia nelle istituzioni; per il Paese intero, che deve fare i conti con una ferita morale. “Quell’ingiustizia gli spezzò il cuore dall’interno”, dice Bellocchio. È un’immagine che colpisce più di qualunque sentenza. La serie HBO, destinata alla nuova piattaforma streaming nel 2026, restituisce anche l’atmosfera di un’Italia di passaggio: i corpi insepolti di Pasolini e Moro, il terremoto dell’Irpinia, la violenza della Nuova Camorra Organizzata, le piazze squassate dalle Brigate Rosse. In quell’Italia, il volto di Tortora diventò il capro espiatorio perfetto: un presentatore famoso, amato e odiato, contro cui accumulare rancori e frustrazioni. Per molti fu la gioia di vedere cadere un uomo di successo. Eppure resta la domanda più difficile: come è possibile che giudici preparati e in buona fede abbiano creduto alla parola di un pentito come Giovanni Pandico, uomo di Cutolo e spettatore assiduo di Portobello? Come è possibile che, di fronte all’evidenza dell’errore, abbiano perseverato nella condanna? È il mistero che Bellocchio lascia aperto, e che rende la serie non soltanto un’opera televisiva, ma un atto politico, un invito alla coscienza critica. Alla Mostra di Venezia, la proiezione ha lasciato in sala un silenzio carico di inquietudine. Perché il caso Tortora non è solo memoria: è un monito presente. Riguarda ogni indagato, ogni processo mediatico, ogni nome sbattuto in prima pagina prima che sia provata la colpa. Pensiamo recentemente al caso dell’imprenditore ed ex parlamentare veneto Alberto Filippi, accusato ingiustamente da un pentito di essere nientemeno che il mandante dell’attentato a un giornalista. Il caso Tortora è un pezzo di storia che ci obbliga a guardare dentro la democrazia italiana e a chiederci quanto sia fragile la presunzione d’innocenza. Bellocchio lo sa, Gifuni lo incarna, e noi spettatori ci ritroviamo ancora una volta a tremare. Non per nostalgia televisiva, non per curiosità storica, ma per l’angoscia che la caduta di un uomo innocente sia anche la possibilità della nostra.
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