Attualità

IN GIUSTIZIA – Trattativa Stato-Mafia, nessun “colpo di spugna”

di Francesco Da Riva Grechi -


Leonardo Sciascia diceva: “L’Italia è un paese senza verità”, lo ricorda Severio Lodato, con l’amore per la sua terra che traspare da tutti i suoi imperdibili libri. L’ultimo, “Il colpo di spugna”, libro – intervista al PM Nino Di Matteo, è già il più discusso di tutti. Si legge in questo libro che siamo in un tempo in cui libera informazione e magistratura sono finite nel mirino della politica e certe sentenze sembrano voler porre una pietra tombale su determinate verità. Secondo Di Matteo, questa sentenza della Corte di cassazione “rischia di costituire uno spartiacque tra due epoche giudiziarie. L’epoca dei cosiddetti grandi processi in cui si è cercato di alzare il tiro della lotta alla mafia non limitandosi alla repressione, giusta e sacrosanta, dell’ala militare ma cercando e scoprendo i rapporti alti e altri di Cosa Nostra, ed un’epoca in cui invece sarà sempre più difficile trovare il coraggio e la possibilità di puntare alla ricostruzione di quei rapporti. E per di più ingenerosamente accusa i giudici di merito di aver adottato un approccio storiografico. Questa è un’accusa che ho ritenuto da subito davvero grave ed ingiusta. Quei giudici di merito pur nella diversità delle loro rispettive conclusioni, avevano adottato invece l’approccio giusto, che era un approccio sistematico e complessivo alla valutazione dei fatti e degli accadimenti, di fatti e accadimenti che non potevano essere correttamente valutati se considerati isolatamente”. In realtà per comprendere la posizione del pubblico ministero bisogna leggere almeno il ricorso della Procura generale contro la sentenza della Corte d’Assise d’Appello che aveva in pratica cancellato le condanne della Corte d’Assise in primo grado. Da rigettare è infatti soprattutto questo ricorso, almeno secondo la condivisibile decisione della Corte Suprema di Cassazione. La procura generale, richiamando addirittura la funzione nomofilattica, chiede di cassare e quindi di cancellare il principio, che nessuno ha mai affermato, della liceità di accordi o alleanze ibride “tra ufficiali di polizia giudiziaria ed esponenti di frange di organizzazioni criminali stretti al fine di contrastare una frangia avversa ritenuta in ipotesi meno pericolosa”. Tuttavia, nelle migliaia di pagine della sentenza impugnata, mai la Corte d’Assise d’Appello ha affermato un principio siffatto. Le ipotesi dei capi d’imputazione si riferiscono essenzialmente al reato di violenza o minaccia ad un corpo politico, che si sarebbero consumate dal 1992 al 1994 e che avrebbero avuto come bersaglio i vertici delle istituzioni di governo, contro le quali, a dire dell’accusa, avrebbero agito gli ufficiali dei R.o.s. Le intenzioni criminali di questi ultimi, detti gli “uomini-cerniera” ovvero Antonio Subranni, Comandante del R.O.S., Mario Mori, suo vice e Giuseppe De Donno, ufficiale addetto al R.O.S., secondo la procura generale, sarebbero inequivocabilmente ricavabili dal fatto che costoro avevano certamente “previsto le richieste contra legem poi avanzate dagli esponenti di “cosa nostra”, che erano dirette ad attentare alla libera autodeterminazione del potere esecutivo”. È impossibile commentare in poche righe vicende di tale importanza e gravità. Uno spunto sulla separazione delle carriere dei magistrati credo tuttavia si imponga alla riflessione pubblica.


Torna alle notizie in home