Politica

Tu vuò fa l’americano

di Cristiana Flaminio -


L’America è, da sempre, la grande passione della politica italiana. Oggi, che con internet le distanze si sono abbattute ed è possibile attraversare l’oceano Atlantico alla velocità di un clic, gli attestati di stima, di solidarietà e di ispirazione che i leader italiani professano ai colleghi americani si sono moltiplicati. Cambiano i leader, cambiano i mezzi di comunicazioni, non cambiano gli endorsement e il dovere che i capi dei partiti italiani sentono quasi potessero, davvero, incidere nelle cose americane.

La scalata di Giorgia

L’unica che è riuscita, quantomeno, a passare da ammirata sostenitrice da fuori a “modello” per i politici Usa è stata, finora, Giorgia Meloni. Che ha dovuto sgomitare, e non poco, per riuscire ad entrare nella grande famiglia dei conservatori angloamericani. Una lunga corsa che è iniziata con il National Prayer Breakfast a cui ha partecipato, a Washington, nel febbraio 2020 non prima di aver ribadito ai conservatori europei, in una conferenza celebratasi poche ore prima della sua partenza per la capitale degli States, di essere lei la rappresentante dell’unica destra conservatrice in Italia. Un anno dopo è entrata nell’Aspen Institute, think tank globale delle forze conservatrici. A febbraio scorso ha partecipato, a Orlando in Florida, alla Cpac, la convention repubblicana americana per eccellenza, dove ha riscaldato i cuori degli americani dichiarando che non si sarebbe arresa mai alla cancel culture, che avrebbe difeso i valori tradizionali anche “dai burocrati” della Ue e condannando “virologi e politici di sinistra” che “sfruttano la preoccupazione della gente per la propria salute per limitare le libertà individuali e i diritti sociali”. Oggi, da un lato si trova a pagare il dazio di certe dichiarazioni (Biden l’ha additata come una sorta di minaccia per la democrazia) ma dall’altro è diventata l’idolo dei repubblicani che hanno visto in lei (anche dopo la sconfitta di Bolsonaro in Brasile) un leader vincente da imitare e seguire per riprendersi la Casa Bianca.

La beffa di Salvini

Una beffa atroce, l’ennesima, per Matteo Salvini a cui gli Stati Uniti non hanno mai dato grosse soddisfazioni. Lui, a Trump, ci aveva creduto (quasi) per primo. Libero da legacci ideologici mentre Giorgia Meloni, prima avvicinatasi all’ex ideologo Steve Bannon da cui ha presto preso le distanze, doveva comunque affrontare una transizione che ha portato Fdi da partito di destra sociale a formazione conservatrice, il Capitano aveva fatto di Donald Trump una della figurine dell’album vincente dei sovranisti. Peccato, però, che alla prima occasione – da presidente degli Usa – Trump abbia ringraziato “Giuseppi” (Conte) con quel famoso twit che oggi, probabilmente, l’ex avvocato del popolo cancellerebbe volentieri dalla storia recentissima del nostro Paese. Salvini le ha provate tutte per convincere il leader americano a fare di lui il suo “rappresentante” ufficiale in Italia. Cappellini, felpe, magliette, lunghe interviste a Breitbart, il giornale online “preferito” dai repubblicani americani durante l’era Trump. Non ci è riuscito. Finendo, così, per ritrovarsi esposto a figure non certo lusinghiere.

Silvio the president

Il più americano di tutti, a destra, resta comunque Silvio Berlusconi. L’unico leader italiano che abbia mai tenuto un discorso al Congresso degli Stati Uniti d’America. La sua vicinanza all’Occidente è tanto granitica che nemmeno la sbandierata amicizia con Putin lo ha (sostanzialmente) scalfito. Nell’immaginario (e non solo in quello del Cav), Berlusconi resta l’uomo che parlava da pari a pari (nei limiti del possibile) con il presidente repubblicano George Bush jr, che ha aperto il centrodestra italiano alle influenze della destra americana, quella teocon e il filone del “conservatorismo compassionevole” (, che ha dato molto al dibattito politico del Paese durante le ultime fasi della Seconda Repubblica.

Renzi, Obama e la fatale Hillary

Ma di Nando Meniconi ce ne sono, a bizzeffe, anche a sinistra. Forse soprattutto a sinistra. Non è un caso se il maggior partito (finora?) dell’area progressista si chiami proprio Partito democratico, uguale a quello americano. E che tra i fondatori ci sia stato Walter Veltroni che la satira aveva trasformato in “Uolter”, non a caso. Nel 2016, Matteo Renzi – direttamente da Harvard – incocciò in una clamorosa sconfitta abbracciando, forse troppo entusiasticamente, la corsa di Hillary Clinton alla Casa Bianca. Fu un segno, l’ex premier non lo seppe cogliere. E la disastrosa sconfitta della ex first lady Usa fu soltanto l’antipasto del clamoroso risultato del referendum sulle riforme costituzionali che, nel dicembre 2016, travolse lui e il suo governo. Barack Obama, poi, è stato il feticcio della sinistra italiana per lunghi anni. Da Enrico Letta a Dario Franceschini, passando per lo stesso Renzi che ostentava verso di lui una sorta di culto della personalità, non c’è stato leader Pd che non l’abbia incontrato e che non abbia raccontato come epifanie gli attimi trascorsi con il vate di “Yes, We Can”.

Il sogno di Elly “Ocasio” Schlein

Per smuovere i giovani, c’è chi si è giovato la carta Bernie Sanders, il senatore del Vermont divenuto il meme più citato di internet. Ma Sanders, un uomo che si dice socialista in un Paese che aborrisce anche solo la parola, è alla lunga pericoloso. Non c’èrischio, invece, a evocare la nuova eroina democratica americana: Alexandria Ocasio Cortez. Elegante e sfrontata, decisa e battagliera, è il volto delle proteste glamour e ideologiche al Met Gala, per l’ambiente e su una nuova sinistra dei diritti. Elly Schlein, pretendente al soglio dem sotto l’alto patronato di Enrico Letta, viene “paragonata” alla Ocasio Cortez dai suoi sostenitori. Lei stessa ha tentato di “intestarsi” in Italia le battaglie sociale di #TaxTheRich, e di sfruttare un paragone che potrebbe giovarle in chiave segreteria Pd.


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