Attualità

Un’Italia chiamata Giulia

di Tommaso Cerno -


Giulia è il nome che tutta l’Italia vorrebbe ancora qui con noi. Lo vorrebbe perché finalmente questo Paese si accorge che le donne sono in pericolo molto più di quanto noi vediamo nella nostra distratta vita quotidiana. Lo vorrebbe perché c’è un senso di colpa del Paese che crede di avere fatto meno di quello che aveva promesso di fare. Ma se vogliamo davvero che queste promesse e queste grandi parole, queste manifestazioni che si moltiplicano in Italia e queste denunce di un maschilismo che ritorna, sia nella sua forma più classica, quella della violenza di un uomo che vuole sopraffare una donna, che trasforma l’amore in ossessione, sia nelle sue moderne e più infide manifestazioni, in quel mondo nero dove molti adolescenti mostrano in superficie un’immagine di sé diversa da quella che è la loro vita reale, fatta di mille pressioni nascoste nei telefoni e di mille violenze che non riguardano la legge e la sua cinica realtà, dobbiamo processare come un Paese civile Filippo Turetta.

Dobbiamo portare quel processo a una sentenza, applicare quella sentenza e fare in modo che le donne che vivono in silenzio violenze simili a quelle che Giulia aveva cercato di denunciare, che abbiamo ascoltato nei suoi audio, che continuiamo a sentire nella nostra mente, vedano che l’Italia non parla e basta ma è in grado di fare qualcosa. Voi direte che questo è scontato ma non è così. Perché se è vero che il patriarcato finalmente diventa un argomento di discussione collettiva, pur fra mille banalità e luoghi comuni, pur fra mille contraddizioni e frasi fatte, è anche vero che rischiamo di tirare per l’ennesima volta la palla in tribuna. Perché noi dobbiamo ricordarci che c’è una persona da processare, ha un nome e un cognome, non conosciamo ancora chi sia davvero, non conosciamo il dettaglio dei fatti, eppure siamo già pronti a tirare in campo parole d’ordine e visioni che rischiano di non aiutare l’Italia a capire, ma di spostare il dibattito dal fatto criminale con le sue ovvie connotazioni sociali a uno dei tanti sterili e violenti dibattiti politici, dove lo scontro non è più né tra Filippo e Giulia, nè tra l’uomo e la donna ma tra la destra e la sinistra.

Provate a immaginare quanto ci saremmo meravigliati, anzi quanto avremmo riso in faccia alla nostra politica se nel 2007 quando Alberto Stasi a Garlasco ha ucciso in maniera efferata la sua fidanzata Chiara Poggi anziché parlare di chi fossero l’assassino e la sua vittima, di quali fossero i segreti della loro vita, di quale fosse la dinamica dei fatti, avessimo aperto una stravagante tenzone dialettica fra le responsabilità politiche del governo di Romano Prodi e dell’opposizione di destra guidata da Silvio Berlusconi. Eppure oggi lo stiamo facendo, abbiamo talmente tanto bisogno di una verità istantanea che si manifesta sui nostri telefoni in tempo reale che stiamo perdendo di vista ciò che è avvenuto, per capire il quale abbiamo bisogno di più tempo e più attenzione, per dedicarci alla solita gara su chi la spara più grossa e chi pensa di avere ragione. E’ anche questa una violenza sulle donne. E su tutte le vittime dei reati. Perché deve sempre esistere la capacità di una società di alzare lo sguardo e collocare i fatti della cronaca dentro un sentimento generale, ma questa non può prescindere dal rispetto della realtà, dal tempo necessario per comprenderla a fondo, dall’idea di mantenere un dubbio fino a quando qualcuno o qualcosa a cui noi abbiamo dato il potere di decidere avrà messo per iscritto cosa davvero è capitato e che valore questo abbia nella vita di tutti gli italiani.


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