Cultura & Spettacolo

Un saggio del Magistrato Otello Lupacchini. Paura e Potere

di Redazione -


 

 Per raggiungere i propri fini, negli Stati democratici  vengono esercitate attività i cui vari momenti possono essere ricondotti ad alcune funzioni che debbono essere sempre riconoscibili, ripartite e affidate ad organi distinti e separati e senza possibilità di interferenze. Con ciò non si vuole intendere una rigorosa “separazione dei poteri” ma una “distinzione  dei poteri” coordinati tra loro e armonicamente operanti nell’unità dello Stato. 

Attraverso un approfondito exursus storico, giuridico e filosofico, il Magistrato Otello Lupacchini, Procuratore Generale di Catanzaro, nel suo libro “Paura e Potere. Società di massa e monopolio della forza al tempo della crisi dello Stato-Nazione” (Odradek Edizioni, pag. 120, Euro 18,00), analizza gli aspetti che caratterizzano l’esercizio dei “poteri” in Italia. 

Dal libro, che raccoglie tre conferenze tenute da Otello Lupacchini presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma “La Sapienza” e presso l’Università di Cassino tra il 2007 e il 2014 (“Governare con la paura”, “Vi è ancora spazio per il Terzo Potere, nell’Italia del Terzo Millennio?” e “L’indipendenza della Magistratura”), si evince la preoccupazione, sia nell’opinione pubblica sia nelle istituzioni, della possibile commistione, in Italia, delle funzioni legislativa, politica e giurisdizionale dello Stato: la prima esprime il momento in cui lo Stato pone le regole generali, valide per tutta la comunità o una parte di essa; la seconda, in senso stretto perché tutta l’attività dello Stato è politica, è quella suprema di indirizzo e di governo dell’intera comunità; la terza è quella con la quale lo Stato accerta e punisce le violazioni delle regole di convivenza e stabilisce la ragione o il torto nelle controversie tra i consociati. Dalla possibile “commistione”, o peggio dalla interferenza nelle funzioni, scaturisce nel cittadino la “paura” di un esercizio abusivo di un “potere” non attribuito alla autorità che in quel momento lo esercita.

Max Weber affermava che “come tutti gli aggregati politici che lo hanno preceduto, lo Stato consiste in un rapporto di dominio dell’uomo su l’uomo” e che “lo Stato non può dunque esistere, se non a condizione che gli uomini dominati si sottomettano all’autorità che volta per volta i dominanti rivendicano”. Se ne deduce, quindi, il grande rilievo che ha la “paura” nel cittadino, che attraverso la prevaricazione delle funzioni attribuite ai diversi “poteri” teme che vengano vanificate le sue libertà individuali e collettive, e nelle autorità che usano il “potere” come questione strategica.

La storia insegna che, qualunque sia la sua “forma” (Monarchia, Repubblica, Dittatura, Democrazia), lo Stato si autodifende da possibili antagonismi con “apparati ideologici delegati alla difesa del ‘dominio’ o, più in particolare il complesso di legislazione e giurisprudenza al quale viene affidato il compito di sanzionare tecnicamente e legalmente la violenza dei poteri”. Citando Alexis de Toqueville, Lupacchini, però, ricorda che “in tutti i paesi civili, a fianco di un despota che comanda, si trova quasi sempre un giurista che legalizza e dà sistema alla volontà arbitraria e incoerente del primo”.

In Italia, la divisione dei poteri è la base della sua democrazia e costituisce “l’essenza fondamentale del diritto pubblico. Ognuno dei tre poteri (legislativo, politico e giurisdizionale, che la Costituzione attribuisce, rispettivamente, al Parlamento, al Governo e alla Magistratura) deve essere indipendente dagli altri ed è obbligato ad agire e a comportarsi sempre restando nel ruolo che gli compete, senza mai compiere ingerenze nell’altrui sfera d’azione… Questi concetti, importantissimi, negli ultimi anni della nostra storia, scrive Lupacchini, sono stati purtroppo messi in discussione”, come dimostra il conflitto tra il potere esecutivo e la magistratura culminato nel 1992 nell’inchiesta “Mani Pulite” che “mise letteralmente in ginocchio l’intera classe politica della cosiddetta ‘prima Repubblica’ … e fu, nei fatti, una prova di forza del potere giudiziario” mettendo in crisi il modello di democrazia elettiva. Lo scontro politico-giudiziario continua con la nuova classe dirigente lacerando i rapporti tra figure istituzionali che, invece, “dovrebbero dialogare e collaborare tra loro per il bene del Paese, guardandosi negli occhi senza sfidarsi; avvicinandosi gli uni agli altri senza incutersi paura, aiutandosi scambievolmente senza compromessi, cercando il dialogo tenendo presente la differenza tra errore e errante”. 

Vittorio Esposito

 


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