L'identità: Storie, volti e voci al femminile Poltrone Rosse



Giustizia

Un Sì per la Giustizia. Verso il referendum sulla riforma

di Giuseppe Ariola -


Un sì al referendum sulla riforma della giustizia. Un sì affinché accusa e difesa siano in una posizione di reale equidistanza dal giudice. Un sì affinché chi è chiamato a decidere in un’aula di tribunale sia una figura effettivamente terza. Un sì per dare concreta attuazione all’articolo 111 della Costituzione, che prevede: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Un sì perché è ovvio, banale e scontato che atleti e allenatori non sono colleghi degli arbitri, appartengono ad altre categorie.

Limitare il potere delle correnti della magistratura

Un sì perché la magistratura nei suoi massimi organismi – leggi Csm – non sia politicizzata. Un sì affinché chi decide su promozioni, trasferimenti o azioni disciplinari nei confronti dei magistrati lo faccia con la serenità e la serietà che il caso richiede. Senza condizionamenti di sorta. Senza l’influenza di questa o quella corrente delle toghe. Un sì per accantonare – almeno in parte – logiche e meccanismi perversi che condizionano la vita delle istituzioni e del Paese. Il caso Palamara docet. Un sì perché la riforma della giustizia varata dal governo e già approvata nelle quattro letture parlamentari previste per le leggi di revisione costituzionale non contiene proprio nulla di eversivo o pericoloso. Contrariamente a quanto chi è privo di argomenti concreti vorrebbe farci credere.

Alcune critiche sbagliate ma ragionevoli

E la lista del perché dire sì alla riforma potrebbe proseguire ed essere ben più lunga. È giusto, però, guardare anche alle ragioni di chi a questa riforma, invece, si oppone. O, quantomeno, non è completamente convinto non tanto della sua bontà, quanto del suo impatto concreto. La critica più sensata che si fa al nuovo assetto immaginato per la magistratura e per alcuni suoi organismi è che in questo modo non si risolvono tutti i problemi legati al settore della giustizia. È assolutamente vero. Altrettanto vero è però che, ad esempio, per avere tempi della giustizia più brevi o, semplicemente, accettabili non occorre una modifica costituzionale. Anzi, si tratta di un principio già fissato in Costituzione del quale, purtroppo, si tiene conto solo a proprio piacimento. E solo inscenando puntualmente uno scarico di responsibilità che chiama in causa gli organici di tutti gli operatori del settore giudiziario.

Ciò che manca non sia una scusa per criticare quello che c’è

Comunque sia, per velocizzare i tempi della giustizia bisogna intervenire su fronti che esulano dalla riforma e sui quali, oltretutto, il governo è al lavoro. Che lo stia facendo bene o male. Di certo questa indubbia esigenza non può diventare una scusa per opporsi a un referendum e a una riforma che indiscutibilmente ha l’obiettivo di risolvere alcuni problemi atavici della giustizia italiana. Senza contare che, siccome è vero che c’è molto su cui intervenire, se mai si comincia, mai si finisce. Anzi, i diversi interventi e ‘ritocchi’ che, ad opera dei governi di tutti i colori politici, ci sono stati negli ultimi 35 anni sul fronte della giustizia aiutano a comprendere quanto effettivamente ci sia da fare. Ma anche la delicatezza che occorre nel mettere mano a meccanismi complessi che richiedono di intervenire non con l’accetta, ma con il bisturi.

Su cosa incide la riforma

Cosa che questa riforma fa, perché va a incidere non su un intero sistema in modo che risulterebbe confuso oltre che indiscriminato, ma su singoli, specifici, eppure fondamentali aspetti. Innanzitutto sul rapporto tra il giudice e il pubblico ministero – di conseguenza, quello tra l’accusa e la difesa – e, in secondo luogo, sul peso delle correnti della magistratura. Un punto quest’ultimo che ha a che vedere con la forte politicizzazione di parte delle toghe. Una politicizzazione che influenza drasticamente la vita del Paese, dentro e fuori dalle aule dei tribunali. Una prassi perversa che incide sugli assetti democratici e che, pertanto, va fermata.

Le posizioni strumentali di chi si oppone

Tra gli oppositori alla riforma vanno poi annoverati quanti non adducono neanche motivazioni minimamente ragionevoli. Quelli che preferiscono ipotizzare scenari apocalittici quanto inesistenti solo perché, non avendo argomentazioni logiche e concrete, gli viene più facile fare così. I soliti partiti contro tutto e contro tutti, quelli che dei ‘No a tutti i costi’ hanno fatto da tempo una bandiera. I movimenti impegnati in un’opposizione pregiudizievole e a prescindere, anche a costo di snaturarsi e di tradire posizioni assunte in passato. È il caso del Pd che sulla separazione delle carriere dei magistrati si è detto per anni favorevole. Poi, il governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni passa dalle parole ai fatti e, allora, “contrordine compagni”. Abbiamo scherzato, meglio rinnegare le nostre istanze che consentire a un governo non nostro di portare a conclusione un progetto negli interessi dei cittadini.

Le bugie che inquinano il dibattito

Da qui a paventare rischi autoritari, minacce per la democrazia, tendenze eversive e l’intenzione del governo di assoggettare i giudici il passo è veramente breve. Eppure, non c’è nulla di più falso, soprattutto per quanto riguarda quest’ultimo aspetto. La Costituzione già prevede l’indipendenza della magistratura da qualsiasi altro potere dello Stato e la riforma non modifica in alcun modo questo principio. Non una sola sillaba ne esce ritoccata. Chi dice il contrario non fa altro che utilizzare spot menzogneri nella speranza che, in caso di sconfitta al referendum, il governo vada a casa. Altra cosa che non sarà così in nessun caso. La verità è che il referendum sulla riforma della giustizia porta con sé la prospettiva di un cambiamento vero, profondo e necessario. E questo è il vero motivo per il quale va sostenuto con un sì: semplicemente perché non sempre le rivoluzioni nascono o passano dai no.


Torna alle notizie in home