Cultura & Spettacolo

UN TRE DI TROPPO CHE NON STROPPIA

di Nicola Santini -


Sono cose che tutti un po’ conosciamo (dai film). Ma che una volta l’anno ci va bene sentirci ripetere in altre salse e addirittura nelle stesse. E a me, giudizio personale, l’esercizio del chiedersi “cosa sarebbe successo se…”fa bene ai neuroni che a volte rischiano di addormentarsi quando si vanno a vedere certi film leggeri e spensierati.
Considerando poi il trend delle pellicole da tre ore che rendono mattone anche un capolavoro, vedersi un film normale, da gennaio, vale sempre la pena. Quantomeno per i popcorn.
Quando ho letto il titolo “Tre di troppo”, sinceramente ho pensato a tre ore di troppo. E quelle forse non le avrei rette. Chiaro che l’investimento del prezzo del biglietto, che costa quanto un mese di abbonamento delle stesse piattaforme che magari tra due settimane lo divulgheranno già, richiede che uno ami alla follia Virginia Raffaele. E io la amo, quindi tutto sotto controllo.
Un’altra cosa che ho apprezzato è la capacità del film di lasciare che a schierarsi sia lo spettatore e questo lo rende piacevole per gli adulti che vanno al cinema per divertirsi e staccare e anche per le famiglie con i bambini che possono andare al cinema e uscirne col sorriso. Con l’esagerazione inutile di film schierati che ci propinano, uno sanamente equidistante, benché tocchi temi come la famiglia, ogni tanto ci vuole.
Alla base della storia, come da tradizione, il solito equivoco del caso. Lo stampo è quello della if comedy americana. Tre di Troppo sale sulla giostra a botta sicura dell’inaspettato per poi virare verso il profumo di quei family move pieno di buone intenzioni. Michele Abatantuono, a volte segue più i bisogno di fare gag che un filo narrativo efficace ai fini della storia, non so se mi spiego. Però se non indugia sul fattore comico, e ci si sofferma su quello più emozionale, funziona comunque. E quello è esattamente ciò che mi aspetto quando c’è di mezzo un bravissimo Fabio De Luigi, protagonista maschile, perfettamente matchato con la recitazione di un’eccellente Virginia Raffaele che è il contraltare. I protagonisti sono Marco, barbiere, e Giulia, commessa in un grande magazzino. Modaioli, amano il ballo, si tengono in forma e sono fieramente snobbini tanto da polarizzare il mondo in due emisferi: da una parte i genitori esauriti alle prese con i propri figli, e dall’altra quelli che non li hanno, liberi di godersela. Infatti, si guardano bene dall’avere una prole al seguito, e anzi guardano con compassione quegli amici alle prese con pappe, pannolini e stress da feste di compleanno.
Ed è proprio durante una di queste feste, ironia vuole che sia organizzata proprio da loro, che la coppia cade in un’assurda maledizione: la mattina dopo, all’improvviso. la loro vita è totalmente stravolta. Si svegliano con tre creature di 10, 9 e 6 anni che li chiamano mamma e papà. Scatta quindi la priorità uno: liberarsene e tornare alla vita di prima. Naturalmente, come è facile immaginare, non sarà facile, e gli imprevisti si sprecheranno. Il film si fa guardare.
Chiaro è che il film Tre di troppo funzioni di più nel momento in cui le intuizioni porgono il fianco alle svolte e all’evoluzione dei personaggi e, allo stesso modo ma inversamente proprorzionale, si scivoli nel banalotto quando si insegue il cliché (in)evitabile della risata facile. Per esempio la storia del cane che puzza non fa ridere, è risaputo, eppure c’è. E queste forzature tradiscono un po’ nel senso Giuda del termine, i buoni propositi del film. Perché poi le risate sono spicciole e sembra che davvero vogliano farti spicciare a farti ste due risate, ritenute ingrediente fondamentale per una struttura che, si vede a occhio nudo, di per sé in piedi solo con i buoni propositi non sta. E nemmeno col gioco pssicologico che invece è profondo e ben fatto ma insufficiente a tenere dritta la storia. L’alchimia tra Fabio De Luigi e Virginia Raffaele funziona alla grande e fa venire voglia di bussare alla porta accanto per capire se davvero i due sono quel genere di vicini di casa, bravi nella leggera, anzi leggerissima arte del cazzeggio quanto nel traghettare emozioni ed empatia in relazione alla dimensione famigliare. Una dimensione che, come ho anticipato, non prende le parti di nessuno, ma tocca con grande umanità, facilità di lettura, tatto e dolcezza un argomento tutt’altro che facile e che avrebbe potuto sfociare in luoghi comuni al pari delle gag ridanciane, rovinando il lavoro che invece tutto sommato merita davvero.

Torna alle notizie in home