Cultura & Spettacolo

UNA TRISTE E TRAGICA PAGINA DI STORIA

di Redazione -


 

“Via Tasso” di Fabio Simonetti

Il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’annuncio che il Governo italiano, a seguito delle gravi sconfitte subite nel corso della seconda guerra mondiale, aveva stipulato a Cassibile, in provincia di Siracusa, con il Generale Eisenhover un armistizio, la famiglia reale (Re Vittorio Emanuele III, la Regina Elena e il Principe Umberto), il capo del governo Pietro Badoglio, alcuni ministri e alti ufficiali, lasciata Roma e imbarcati sulla nave Baionetta, sbarcavano a Brindisi dove formavano nell’Italia del Sud, già liberata dagli alleati, un nuovo governo che, mantenendo la struttura costituzionale del Regno d’Italia, dichiarava guerra alla Germania. L’Italia diventava cobelligerante degli Alleati.

Lo stesso giorno le truppe germaniche occupavano la città di Roma e i territori del centro-nord e del settentrione e, dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso (12 settembre), nei territori italiani occupati dalle truppe tedesche il 17 settembre veniva fondata dal nuovo Partito Fascista la Repubblica Sociale Italiana retta da Mussolini e assoggettata, di fatto, alla volontà degli occupanti. La sede della presidenza fu fissata a Salò, sul lago di Garda, da cui prese la denominazione di Repubblica di Salò.

La città di Roma, non più capitale del Regno d’Italia, diventava così una delle tante città del territorio repubblicano e scelta dalla Germania come sede del comando del Servizio di Sicurezza (SD) e del Comando all’estero della Polizia di Sicurezza (SIPO) con a capo il ten. col. Herbert Kappler.

Come sede fu scelto un palazzo di cinque piani del quartiere Esquilino, costruito in Via Tasso (numeri civici 145 e 155) nel 1938 a ridosso delle Mura Aureliane nelle immediate adiacenze della Scala Santa e della Basilica di San Giovanni in Laterano, dalla facciata anonima, che già ospitava, in base ad un accordo stipulato con la Germania nel 1936, gli Uffici culturali dell’Ambasciata tedesca e l’Ufficio di collegamento della polizia tedesca con la polizia italiana istituito per coordinare le azioni di lotta contro i “delinquenti politici”.

Gestito dalle “SS” (Schutz – Staffeln), le “squadre di protezione”, nate nei primi tempi dell’attività nazista come “truppa d’urto” di Hitler, sciolte nel 1923 e ricostituite nel 1925 come milizia di partito divenendo la prima e principale arma delle violenze naziste, il palazzo di Via Tasso nel corso dei nove mesi di occupazione tedesca (dal 12 settembre 1943 al 4 giugno 1944) divenne sinonimo di barbarica ferocia.

Fabio Simonetti nel libro “Via Tasso. Quartier generale e carcere tedesco durante l’occupazione di Roma” (Odradek Edizioni, pag. 332, Euro 25,00), attraverso una approfondita analisi di documenti sia di fonte tedesca che italiana, ripercorre la “storia” del palazzo – trasformato dai nazifascisti, da appartamenti di civile abitazione prima e in uffici poi, in luogo di detenzione e torture – che, nell’immaginario collettivo, è ancora oggi indicato come luogo dove la crudeltà esercitata da uomini su altri uomini ha raggiunto livelli di inaudita violenza lasciando negli italiani, e nei romani in particolare, segni indelebili. Quel palazzo è tutt’oggi ricordato, dai pochi “anziani” superstiti che hanno vissuto nel quartiere in quel periodo, col nome di “Villa triste”, perché costruito dove era l’antica Villa Giustiniani.

Simonetti, scrive Giovanni Contini Bonacossi, studia “una delle realtà più emblematiche della storia della Roma sotto l’occupazione tedesca: l’Aussenkommando di via Tasso e il complesso sistema delle attività poliziesche collegate a Herbert Kappler e al suo gruppo”.

Il libro “Via Tasso” è articolato in tre parti: nella prima l’autore “ricostruisce” i profili dei protagonisti degli eventi che si sono succeduti fin dagli anni ’30 nel palazzo, attraverso documenti e testimonianze, anche inedite, come l’intervista a Erich Priebke, ufficiale di collegamento con la polizia italiana e  primo aiutante di Kappler a Roma; nella seconda  analizza, desumendole da fonti tradizionali confrontate con fonti orali e autobiografiche di prigionieri detenuti (partigiani, ebrei, militari, religiosi e cittadini comuni arrestati in corso di rastrellamenti), le attività di indagine poliziesca, la detenzione e le torture che hanno avuto luogo nell’edificio e nella terza Simonetti ripercorre la difficile storia dell’allestimento, in alcuni locali dell’ex carcere nazista, del Museo Storico della Liberazione di Roma.

Particolarmente interessante la parte, poco indagata dagli storici, nella quale Simonetti analizza il fenomeno, “certamente maggiore di quanto finora si è immaginato”, della “delazione” da parte di cittadini romani che “giornalmente”, per lettera o per telefono, effettuavano decine di denunce anonime su ebrei sfuggiti alla retata del 16 ottobre 1943, renitenti alla leva o al lavoro obbligatorio o appartenenti a organizzazioni clandestine. Queste “denunce”, ricorda nella sua intervista Priebke, erano il “punto di partenza” dell’attività poliziesca delle SS.

Lo stesso giorno dell’entrata delle truppe alleate a Roma, il palazzo di via Tasso venne “invaso” dai romani che liberarono i detenuti. Nei giorni successivi venne occupato da famiglie di sfollati che avevano perso le loro abitazioni a causa della guerra e dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (Anpi). Nel 1950 Josepha Savorgnan di Brazzà in Ruspoli, proprietaria dell’edificio, dona allo Stato quattro appartamenti dell’ex prigione al numero civico 145 con l’esplicita clausola “di realizzare al loro interno un Museo permanente” la cui realizzazione inizia nel 1953 con l’istituzione, da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, di un apposito Comitato, presieduto dallo storico Alberto Maria Ghisalberti,  che doveva reperire documenti e cimeli da poter esporre nel costituendo Museo a cura di Guido Stendardo, già direttore della Biblioteca di archeologia e storia dell’arte ed ex membro del CNL di Modena per la Democrazia Cristiana. Il Museo fin dall’inizio, scrive Simonetti, doveva esprimere la volontà di rappresentare “la Resistenza come la naturale continuazione dell’esperienza del Risorgimento”. Il Museo, il cui primo nucleo è stato inaugurato dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 4 giugno 1955, è stato  istituito ufficialmente il 14 aprile 1957, nei locali al numero civico 145, come “Museo storico della Liberazione di Roma”, Ente pubblico sotto la Tutela del Ministero della Pubblica Istruzione e, dal 1987, sottoposto a vincolo dal Ministero dei Beni Culturali “come luogo della memoria”.

In un paese come il nostro, dove si tende a distruggere, più per motivi ideologici e di contrapposizione politica che culturale, emblemi, epigrafi e riferimenti a personaggi giudicati in modo irreversibile dalla storia che hanno influito in modo determinante, chi in positivo chi in negativo, alla storia del nostro Paese, il libro “Via Tasso” assume una particolare rilevanza soprattutto per mantenere viva la memoria di luoghi che devono essere “conservati” come testimonianza di verità.  Perché non basta a mantenerne vivo il ricordo l’apposizione a posteriori, come purtroppo insegnano i recenti fatti di cronaca, di “pietre d’inciampo” o di una targa commemorativa, magari oggi sbiadita e quasi illeggibile come quella apposta sul muro del palazzo edificato nel quartiere Ludovisi a Roma, in Via Romagna, dove era la “Pensione Jaccarino” dove “operava”, con crudeltà forse superiore a quella esercitata dalle SS a Via Tasso, la famigerata “Banda Kock”, Reparto Speciale di Polizia Repubblicana agli ordini del beneventano Pietro Kock, da cui prese il nome, criminale di guerra fucilato a Milano nel 1945, che ha collaborato con Herbert Kappler alla selezione dei 335 prigionieri fucilati il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine, una cava di arenaria presso le catacombe di San Callisto, come rappresaglia all’attentato di Via Rasella nel quale furono uccisi 33 soldati tedeschi. Il libro di Fabio Simonetti, di facile lettura e di attento rigore informativo, può certamente aiutare a colmare, senza la pretesa di essere esaustivo, eventuali lacune della nostra memoria storica.

Vittorio Esposito


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