Ursula gela Tajani e Ppe: “Non si tocca il Green Deal”
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, presidente della Commissione Ursula von der Leyen a Bruxelles in occasione del summit del Ppe, 20 marzo 2025. ANSA/DIEGO RAVIER
In un mondo che cambia, l’unica a non cambiare mai è l’Ue e per Ursula von der Leyen questa è una medaglia, né sui dazi, né sul Green Deal e che importa se Antonio Tajani, che oltre a essere vicepremier e ministro degli esteri italiano è pure una colonna del Ppe, ottiene applausi scroscianti dal congresso dei popolari europei quando parla della necessità di superare “il disastro” del programma verde. Parole nette, nettissime, quelle di Tajani: “Se vogliamo davvero proteggere il lavoro e creare nuove opportunità per le nuove generazioni, dobbiamo cambiare. Serve una politica industriale forte, serve sostenere l’economia reale, serve una nuova stagione dopo il disastro del Green Deal”. Tajani che trasforma la sonnecchiante assemblea popolare in un turbine di applausi quando tuona: “Serve pragmatismo. Va fermata la decisione del 2035 di passare solo all’auto elettrica: è un errore gravissimo, in Germania, in Italia, ovunque. Perché siamo un continente industriale. Serve modernizzare la nostra politica industriale, ma serve una politica industriale europea che rafforzi il lavoro in Europa”. Nel pomeriggio di ieri, Bruxelles manda avanti un portavoce, stavolta tocca a Paula Pinho, la stessa a cui era stato demandato il compito di ventilare la possibilità, mai realmente esistita, di un incontro tra Ursula e Trump a Roma a latere dei funerali del Papa. La portavoce raddrizza il tiro: “Posso confermare che Ursula von der Leyen sostiene pienamente il Green Deal, che è stato una delle sue iniziative principali fin dal suo primo mandato. Non si tratta più solo di un progetto della Commissione: è stato accolto dagli Stati membri e diverse misure legislative, per la maggior parte, sono ormai in vigore e vengono attuate”. In un sol colpo, von der Leyen smentisce Tajani, smentisce i congresso del suo stesso partito e rilancia l’ideologia che ha portato l’automotive europeo a schiantarsi. Non proprio la migliore testimonianza per l’European way of trade che Ursula ha voluto presentare, al congresso Ppe, come simbolo di una postura per restare in piedi in un mondo che invece, si dimena e salta come un tagadà: “’In ogni crisi – ha rilevato la presidente della Commissione – c’è anche un’opportunità: non solo il nostro mercato unico è il più grande del mondo, perché la sua apertura al mondo è di gran lunga superiore a quella degli Stati Uniti o della Cina. Ma siamo anche i campioni mondiali in termini di esportazioni rispetto al Pil. Le nostre aziende hanno bisogno dei mercati globali”. E di meno burocrazia. L’Ai Act ne è diventato l’emblema: nato per colmare le distanze e dare all’Europa un laboratorio in cui coltivare il nuovo unicorno digitale s’è trasformato in una cappa di leggine e regolamenti che, secondo gli attori del settore che alla Commissione Ue hanno scritto una lettera mettendo nero su bianco le loro perplessità, nemmeno a Kafka sarebbe riuscito di immaginare. La baronessa Von der Leyen, a differenza del principe di Salina, ci tiene a che tutto non cambi affinché tutto non rimanga com’è: “L’affidabilità e la prevedibilità dell’Europa paga, oggi il mondo commerciale guarda a noi perché siamo giusti, affidabili e rispettiamo le regole”. Ma ci si guarda bene dall’investirci in Europa. Un po’ perché (ben prima dei dazi) gli Usa hanno richiamato in patria tutte le loro major. Cosa che Trump sta continuando ingiungendo, per esempio, a Microsoft di abbandonare i suoi progetti europei. Cosa che Microsoft non ha la minima intenzione di fare. E non perché gelosa della sua autonomia aziendale né perché ama l’Europa ma, semplicemente, perché spera di spuntare condizioni migliori alla Casa Bianca per rinunciare ai data center nel Vecchio Continente. Dove, però, ciò che conta è restare ancorati alle proprie convinzioni anche quando la realtà presenta il conto. E poco importa se l’unica certezza sta in un groviglio di contraddizioni che si rintracciano già nelle parole di Pinho che ha parlato degli adeguamenti necessari al Green Deal citando la necessità di “semplificare gli oneri” per la burocrazia e l’applicazione dei “dazi climatici” alle frontiere. La carbon tax. Immaginata già molto prima che Trump s’inventasse la guerra dei dazi. Così come le tariffe applicate ai cinesi già prima che la Casa Bianca decidesse di imbarcarsi nella battaglia con Pechino. “Posso dire senza alcun dubbio che ogni volta che ho sentito la presidente von der Leyen esprimersi sul Green Deal, indipendentemente da coloro a cui si rivolgeva, ha mostrato un impegno analogo a quello dei giorni in cui presentò il progetto e questo lo vedo sia nelle discussioni con i portatori di interesse esterni, sia nelle sue discussioni interne”, ha chiosato Pinho. Tajani, e con lui il Ppe e gli elettori di mezza Europa che hanno votato contro le politiche green, se ne facciano una ragione”. “L’obiettivo principale, la visione principale di un continente a zero emissioni di carbonio entro il 2050”, conclude Pinho. Ursula ha parlato: nessuno tocchi il Green Deal. Di applausi, stavolta, pochini.
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